La NATO verso Vilnius e la difficile posizione dell’Italia

Il prossimo 11-12 luglio i capi di stato e di governo dei Paesi NATO si riuniranno a Vilnius in un vertice che sarà segnato, nel contenuto e nella simbologia, dalla risposta all’invasione russa dell’Ucraina – ma che vedrà anche la Cina e l’Indo-Pacifico in agenda. Un summit in cui la posizione dell’Italia non è facile, per motivi strutturali e non, anche riguardo alle cariche apicali dell’alleanza in cui Roma è oggi gravemente sotto-rappresentata.

L’agenda NATO: Russia, Russia, Russia. E Cina

Dal vertice di Madrid che nel 2022 ha adottato il nuovo Concetto Strategico, la strada percorsa dalla NATO è stata coerente con la rinnovata priorità data alla deterrenza e difesa collettiva alla luce della guerra in Ucraina, e con l’orientamento di lungo periodo statunitense volto a disimpegnarsi dal Medio Oriente per contenere anche insieme agli alleati europei l’assertività e l’influenza cinese – nell’Indo-Pacifico e non solo. Per quanto riguarda la difesa collettiva, sono andati avanti a tutti i livelli i lavori sull’aggiornamento dei piani militari, e sul dispiegamento dei battaglioni multinazionali alleati in Bulgaria – a guida italiana – Romania, Ungheria e Slovacchia nel quadro della Enhanced Vigilance Activity.

Allo stesso tempo il tema della Cina è entrato stabilmente e fortemente in diversi tavoli di lavoro NATO, dalla corsa alle emerging disruptive technologies al dominio cibernetico, alimentando un’importante riflessione sulle implicazioni delle politiche e della postura militare cinese. In parallelo sono continuati i contatti con i quattro Paesi partner dell’Indo-Pacifico che probabilmente saranno invitati a Vilnius al massimo livello politico, come già accaduto a Madrid quando i capi di governo nipponico, sud coreano, australiano e neozelandese erano per la prima volta insieme in un vertice NATO.

Rispetto ai lavori in corso su Russia, Cina e Indo-Pacifico, emerge con ancora più nettezza lo stallo politico e militare in ambito NATO sul fianco sud dell’Alleanza, e sugli altri due core task del Concetto Strategico in vigore: prevenzione e gestione delle crisi da un lato, e sicurezza cooperativa dall’altro specie per quanto riguarda i partenariati in Africa e Medio Oriente.

Finlandia, Svezia e baricentro dell’Alleanza verso nord-est

Nel frattempo la Finlandia è ufficialmente entrata nell’Alleanza lo scorso 4 aprile, con l’aggiunta della bandiera finlandese alle 30 già issate nel quartier generale a Bruxelles. E’ in corso l’inserimento di rappresentanti di Helsinki nei vari consessi e strutture NATO, e il necessario adeguamento della postura militare alleata considerando le novità del sostanziale controllo del Mar Baltico, del lungo confine terrestre con la Federazione Russa, della proiezione sull’Artico e dei significativi assetti del nuovo stato membro.

Il vertice di Vilnius potrebbe portare a conclusione il processo di adesione della Svezia, se il presidente turco fresco di vittoria elettorale troverà un qualche compromesso last minute con gli alleati. Annunciare in un Paese Baltico l’ingresso del vicino svedese sancirebbe con grande forza politica, e simbolica, come l’aggressione voluta da Putin abbia cambiato strutturalmente l’equilibrio regionale a sfavore di Mosca, in modo irreversibile.

Se tale annuncio non si dovesse concretizzare in Lituania, è comunque molto probabile che Stoccolma aderisca alla NATO entro fine anno: sia perché prolungare troppo lo status di candidato presenta dei rischi da evitare, sia per l’interesse di tutti a chiudere il dossier prima dell’anno elettorale statunitense che culminerà con le presidenziali di novembre 2024. In ogni caso, il baricentro geografico e militare dell’Alleanza si sta spostando a nord-est, e continuerà a farlo contribuendo a marginalizzare ulteriormente in ambito NATO quello che l’Italia considera il Mediterraneo allargato.

Stoltenberg e la geografia delle posizioni apicali NATO

Nel percorso da Madrid a Vilnius è in corso un importante avvicendamento dei vertici NATO. Nel 2022 l’alto ufficiale americano Tom Goffus è diventato ‘Assistant Secretary General for Operations’, il diplomatico britannico Angus Lapsey ‘Assistant Secretary General for Defence Policy and Planning’, e la diplomatica canadese Wendy Gilmour per ‘Defence Investments’: tre portafogli politico-militari di peso nella NATO, specie con la priorità data alla difesa collettiva, assegnati a Paesi anglosassoni. A febbraio 2023 il manager italiano Carlo Borghini è stato nominato “Assistant Secretary General for Executive Management”, occupandosi della gestione dei quartier generali NATO.

Completano la squadra degli Assistant Secretary General quelli in carica da più tempo, rispettivamente su “Intelligence and Security” (americano), “Political Affairs and Security Policy” (tedesca), “Emerging Security Challenges” (olandese) e “Public Diplomacy” (lettone). Nessuno di loro proveniente da un Paese mediterraneo della NATO.

L’attuale Segretario Generale, il norvegese Jens Stoltenberg, è in carica da quasi un decennio: un periodo ben più lungo dei suoi predecessori, dovuto anche alla situazione eccezionale di una guerra in Europa, che ha spinto gli alleati a marzo 2022 a prorogarne il mandato fino a settembre 2023. È possibile che il perdurare del conflitto porti il vertice di Vilnius ad estendere di un ulteriore anno il mandato di Stoltenberg, fino al successivo summit di Washington che ad aprile 2024 celebrerà anche i 75 anni della NATO, a meno che non prendano corpo prima delle candidature politiche di peso come potrebbe essere quella britannica.

In precedenza, il suo ruolo era stato ricoperto per cinque anni ciascuno dal danese Rasmussen, dall’olandese de Hoop Sheffer e dal britannico Robertson, per un totale di 25 anni di Segretari Generali provenienti da Paesi affacciati sul Mare del Nord. L’ultimo esponente mediterraneo ad assumere tale ruolo apicale fu lo spagnolo Solana sul finire del secolo scorso, e l’ultimo italiano fu Manlio Brosio ben 52 anni fa.

Una riflessione critica sull’agenda italiana nella NATO…

La posizione dell’Italia nella NATO oggi non è facile, per motivi strutturali e non. Tra i primi c’è il focus predominante sulla difesa collettiva a est e lo spostamento del baricentro dell’alleanza verso l’Europa nordorientale che, sommati ad altri fattori antecedenti l’invasione russa, prevengono qualsiasi iniziativa significativa NATO sul fianco sud caro all’Italia.

Si tratta di una realtà strutturalmente diversa da quella antecedente il 24 febbraio 2022, quando Roma poteva ancora ottenere un qualche risultato quanto ad approccio NATO “a 360 gradi” in termini di minacce e di geografia. Una realtà odierna che non piace all’Italia ma con cui il governo e più in generale il sistema Paese devono fare necessariamente i conti, senza coltivare illusioni su quello che l’Alleanza potrà fare a sud nel prossimo futuro. È quindi necessaria da parte italiana una riflessione critica e innovativa su dove e come investire il capitale politico e militare a propria disposizione. Due le questioni di fondo, strettamente legate tra loro.

Da un lato, per quanto riguarda il Mediterraneo allargato, la domanda da porsi è la seguente: è meglio continuare a insistere per iniziative in ambito NATO andando contro trend strutturali della stessa Alleanza, oppure è meglio agire in questa regione prioritaria per gli interessi nazionali più a livello bilaterale, tramite coalizioni ad hoc e nel quadro Ue, contando solo su un limitato – ma comunque utile – supporto NATO? Scegliere la seconda risposta non vuol dire abbandonare il lavoro fatto e le potenzialità ad esempio dello Strategic Direction South Hub di Napoli o dei centri di eccellenza alleati in Italia che lavorano su Security Force assistance (Cesano) e Stability Policing (Vicenza). Ma vuol dire essere realistici sul supporto limitato che queste realtà potranno dare, e sulla loro complementarietà rispetto a linee di azione nazionali nel Mediterraneo allargato da portare avanti fuori dall’Alleanza. Anzi, lavorare a livello bilaterale/coalizioni ad hoc fuori della NATO potrebbe portare più facilmente a costruire un consenso tra Paesi europei like-minded con riverberi positivi nell’ambito dellìAlleanza.

Dall’altro lato, c’è una seconda questione da porsi: non converrebbe all’Italia impegnarsi di più in ambito NATO sui temi in cima alla stessa agenda transatlantica, e articolare una propria posizione più chiara, proattiva e incisiva sul futuro dei rapporti con l’Ucraina e della posizione della Russia nel sistema di sicurezza europeo, sulle politiche industriale e tecnologica – da DIANA al NATO Investment Fund – sulla competizione nei nuovi domini operativi spaziale e cibernetico, sull’approccio verso la Cina e i partner dell’Indo-Pacifico, sui regimi internazionali di non proliferazione e controllo degli armamenti? La risposta dovrebbe essere affermativa perché sono tutti temi con un impatto importante, diretto o indiretto, sulla sicurezza del Paese e gli interessi nazionali. Temi su cui Roma ha expertise e assetti rilevanti da porre sul tavolo e rispetto ai quali l’Italia potrebbe avere ritorni significativi se vi investisse più capitale politico e militare. Per esempio, la presenza militare italiana in prima linea sul fianco est della NATO, numerosa e di alta qualità dai Paesi Baltici alla Bulgaria passando per Ungheria e Slovacchia, dovrebbe essere valorizzata dalle istituzioni italiane – Esteri e Difesa in primis – per pesare di più nella riflessione NATO rispetto a Ucraina e Russia. O ancora, il Global Combat Air Programme tra Regno Unito, Italia e Giappone potrebbe essere sinergico con la posizione italiana sulla cooperazione NATO-Tokyo e viceversa.

Senza una riflessione critica su queste due questioni di fondo, e quindi sul posizionamento dell’Italia rispetto all’agenda transatlantica, il rischio è di aumentare la disconnessione tra il dibattito italiano sulla NATO (centrato sul fianco sud) e la riflessione politico-militare nella NATO (in cui il fianco sud è assente), con una progressiva marginalizzazione del Paese nei consessi alleati anche a causa dell’auto-distacco dalle priorità dell’agenda alleata. Un auto-distacco che a sua volta contribuisce all’evidente sottorappresentazione odierna dell’Italia nelle posizioni apicali dell’Alleanza.

…e un rafforzamento delle posizioni italiane nell’Alleanza

Le cariche apicali NATO assunte dall’Italia nell’ultimo decennio, salvo rare e lodevoli eccezioni come l’Assistant Secretary General Antonio Missiroli (2017-2020), non rispecchiano infatti i fondamentali demografici, economici, militari e tecnologico-industriali del Paese. Basti considerare che Roma è da tre decenni stabilmente tra i primi contributori dopo Washington alle missioni e attività NATO, in termini di personale e assetti militari, dai Balcani all’Afghanistan, dall’est Europa all’Iraq – dove l’Italia comanda la NATO Training Mission – e dal Mar Mediterraneo al Baltico – mare attualmente solcato dalla FREMM Margottini impegnata in una esercitazione NATO.

La sottorappresentazione attuale è particolarmente grave se si ricorda che per più di quattro decenni, dal 1971 al 2012, un italiano è sempre stato Deputy Assistant Secretary General, ruolo ben più importante del Assistant.

Alla base della difficile situazione attuale vi sono motivi strutturali di debolezza, e fattori su cui invece si può lavorare. Tra i primi, la durata media dei governi inferiore ai 18 mesi è un handicap che il Paese porterà con sé, in questo e in tanti altri ambiti, finché non si adotterà una riforma costituzionale che rafforzi l’esecutivo.

Tra i fattori che si possono affrontare da subito e nell’attuale architettura istituzionale, quattro sono particolarmente importanti. Il primo è l’entità del bilancio della difesa, che non può rimanere ancora per anni fermo intorno al 1,5% quando tutti gli altri alleati hanno già superato o stanno per raggiungere la soglia del 2%, sempre più considerata come un punto di partenza che come un punto di arrivo.

Il secondo fattore, meno noto e anche meno costoso da affrontare, riguarda la consistenza della rappresentanza diplomatica italiana presso la NATO, attualmente analoga a quelle di piccoli Paesi europei e quindi numericamente inadeguata per incidere con efficacia sulla formulazione di posizioni e politiche comuni già dai livelli di lavoro intermedi.

Il terzo fattore, analogo a quello in ambito Ue discusso in un recente studio IAI, riguarda la costruzione di profili e percorsi di carriera civili e militari in grado di competere efficacemente per le posizioni nelle istituzioni NATO, ed il mantenimento di un legame tra Roma e gli italiani in tali posizioni – quello che fanno sistematicamente altri Paesi europei, ça va san dire. Anche in questo caso si tratta di un elemento meno noto delle spese militari e meno costoso da affrontare, ma dall’importanza significativa nel policy-making quotidiano di una grande e complessa organizzazione internazionale.

L’ultimo fattore, ma non per importanza, riguarda la preparazione politica delle candidature per le posizioni apicali della NATO, che deve partire con congruo anticipo, individuare personalità di spessore e costruire un ampio e solido consenso politico interno che superi l’alternanza di governo. Affrontare questi quattro fattori vuol dire fornire gli strumenti concreti alla politica estera e di difesa italiana per portare con più successo la posizione nazionale in ambito NATO, e non solo.

Rilancio italiano o circolo vizioso

Riflessione critica sul posizionamento dell’Italia rispetto all’agenda NATO e potenziamento degli strumenti per incidere nel processo decisionale dell’Alleanza sono due facce della stessa medaglia, che si rafforzano a vicenda.

Nell’immediato la preparazione del vertice di Vilnius e della candidatura del Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone a nuovo Chairman del Military Committee NATO, e a breve il lavoro sulla successione di Stoltenberg e sul prossimo ricambio degli Assistant Secretary General, possono e deve costituire uno stimolo ulteriore per un rilancio dell’Italia nell’Alleanza. In particolare, l’eventuale, auspicabile ottenimento della Chairmanship del Military Committee deve essere anche una base per una successiva candidatura italiana a Deputy Secretary General.

È necessario e possibile un rilancio che prenda di petto i suddetti quattro fattori di debolezza, da parte del sistema Paese e in particolare di un governo che si è dato un chiaro profilo atlantista, un orizzonte di legislatura e una forte agenda riformatrice. L’Italia ha delle carte da giocare sul tavolo NATO, se trova la coesione e volontà per farlo.

Farlo vuol dire anche rinnovare la vocazione euro-atlantica dell’Italia, rilanciando i motivi ideali e concreti della storica e lungimirante scelta di campo occidentale del Paese. Non farlo vuol dire alimentare un circolo vizioso, di distacco tra l’agenda italiana e quella NATO e di sottorappresentazione nelle cariche apicali, che porterà a chiedersi sempre più spesso perché l’Italia non difende i propri interessi nazionali in ambito NATO e perché i Segretari Generali non sono mai italiani – e ormai neanche i loro vice.

Foto di copertina ANSA/FILIPPO ATTILI/US PALAZZO CHIGI

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