Due visioni opposte di leadership per il futuro della Turchia

Negli ultimi mesi è stato detto più volte che le elezioni di domenica 14 maggio in Turchia saranno uno spartiacque storico per il paese. Un punto critico che però non deve risultare di secondaria importanza è legato ai meccanismi di leadership e delle conseguenze di un eventuale cambio alla guida del paese, sia per la sua transizione democratica sia per la fiducia che gli alleati regionali (Ue e Nato in primis) possono riporre nel paese. La leadership del presidente Recep Tayyip Erdoğan sembra essere sul filo del rasoio, sfidata da Kemal Kılıçdaroğlu, capo del Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), il più grande partito di opposizione che guida l’Alleanza Nazionale (Millet İttifakı), e cha ha ora dalla sua parte anche Muharrem Ince, ritiratosi dalla competizione elettorale. Politica interna ed estera in Turchia hanno sempre vissuto di un rapporto osmotico: ecco perché quella che sarà la nuova leadership turca influenzerà anche lo status del Paese e la volontà (o la mancanza) di altri Stati di stabilire un rapporto di fiducia.

Elezioni storiche

A cento anni dalla nascita della Repubblica turca fondata da Ataturk nel 1923 e dopo oltre vent’anni di governo ininterrotto del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP), la Turchia si avvia verso la seconda elezione presidenziale della sua storia, la prima dopo il referendum costituzionale del 2017 che l’ha trasformata in un sistema presidenziale. Con l’avvicinarsi del primo turno, il 14 maggio, la leadership di Erdoğan si troverà ad affrontare una prova senza precedenti a causa del sommarsi di fattori interni (ovvero le divisioni sociali e la crisi economica) e regionali/internazionali (su tutti l’aggressione russa all’Ucraina).

Alle urne si recheranno circa 64 milioni di cittadini turchi, di cui 3,4 milioni residenti all’estero e 5 milioni di primi elettori, la maggior parte dei quali è nata e cresciuta nell’era dell’AKP. La crisi economica scoppiata nel 2018 e il conseguente vertiginoso tasso d’inflazione (all’85,5% nell’ottobre 2022 e ancora al 50,1% nell’aprile 2023), insieme al terribile terremoto che ha colpito la parte sud-orientale del Paese il 6 febbraio, sono fattori endogeni che ricordano quelli che hanno interessato il periodo dal 1999 al 2002 (quando l’AKP alla fine ottenne la maggioranza nella Grande Assemblea Nazionale): nel 1999, due grandi terremoti colpirono la Turchia nord-occidentale, provocando accuse di corruzione contro l’allora governo Ecevit (del Partito della Sinistra Democratica) e la rabbia dell’opinione pubblica, mentre nel 2001 esplose una crisi finanziaria senza precedenti. Inoltre, il secolarismo e le fratture sociali interne (laico-religiosa, turco-curda e sunnita-alevita, in particolare) sembrano essere di nuovo in gioco in queste elezioni.

I partiti in competizione

Elezioni che si preannunciano competitive (seppur Erdoğan controlli, direttamente o indirettamente, il 90% dei media del Paese e mantenga un sostanziale potere economico), come un testa a testa tra Kılıçdaroğlu ed Erdoğan. Il Presidente in carica ha già subito un duro colpo alle elezioni amministrative del 2019 e ora guida una coalizione composta dall’AKP e dal partito ultranazionalista Movimento Nazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi, MHP), insieme a tre piccoli partiti, due dei quali di orientamento islamista. L’AKP è saldamente radicato nell’ambiente conservatore e religioso, mentre il CHP si posiziona sul versante ultra-secolarista; l’MHP (fortemente impegnato nel nazionalismo e nello statalismo turco) fa leva sulle questioni etniche, mentre la divisione sunnita-alevita è stata riportata al centro del dibattito pubblico dopo la cruciale “dichiarazione alevita” di Kılıçdaroğlu, in cui il leader del CHP ha dichiarato in un video “Sono un alevita”, ricevendo oltre 360.000 like.

Due visioni opposte di leadership

Il “Gandhi turco” e l’ “Erdoğan ingrigito“: Erdoğan e Kılıçdaroğlu rappresentano non solo gli estremi opposti del sistema politico turco (conservatore il primo, ultrasecolarista il secondo), ma anche due visioni completamente divergenti della leadership: Erdoğan ha personificato per anni l’uomo forte, convinto di poter rompere con l’idea tradizionale del kemalismo. Kılıçdaroğlu, invece, nato da una famiglia alevita di nove persone in un isolato villaggio di montagna nella provincia di Tunceli, è a capo dell’opposizione dal 2010 ed è stato precedentemente sconfitto alle elezioni generali del 2011, 2015 e 2018. Come suggerisce il suo soprannome “il Gandhi Kemal”, rappresenta un leader pacato, che ha costantemente invocato la riconciliazione tra i vari gruppi politici, etnici e religiosi della Turchia (come testimonia anche il suo sostegno al diritto delle donne di indossare il velo nelle istituzioni statali).

La strategia del CHP per queste elezioni, che vuole contrastare il discorso divisivo e polarizzante dell’AKP, si basa su una pubblicazione di Ateş İlyas Başsoy intitolata Radikal Sevgi Kitabı (il Libro dell’amore radicale). Başsoy è uno scrittore, pubblicista ed esperto di comunicazione turco, già famoso per le sue pubblicità elettorali contro l’AKP e per il suo bestseller AKP Neden Kazanır? CHP Neden Kaybeder? (Perché l’AKP vincerà? Perché il CHP perderà?), pubblicato nel 2011. Kılıçdaroğlu ha avviato una rivoluzione silenziosa all’interno del suo partito, a lungo considerato vicino ai militari, cercando di fare pace con gli islamisti e abbandonando i vecchi codici militaristi del CHP e apparentemente in grado di intercettare le vere esigenze e preoccupazioni religiose, sociali ed economiche che attraversano la popolazione turca, da destra a sinistra.

Da considerare anche la scelta di Kılıçdaroğlu di nominare a vicepresidenti, in caso di vittoria, Ekrem İmamoğlu e Mansur Yavaş, rispettivamente sindaci di Istanbul e Ankara, entrambi figure carismatiche secondo diversi sondaggi.

La politica estera tra fiducia e rischi

In un contesto internazionale sempre più instabile, in cui la Turchia continua a pretendere di fare da perno, un cambio di leadership potrebbe avere alcune importanti implicazioni in termini di fiducia anche per quanto riguarda le relazioni regionali. Recentemente, Erdoğan ha cercato di normalizzare i rapporti con i suoi vicini nella regione MENA; tuttavia, considerando ad esempio le relazioni con Damasco, finché le truppe turche rimarranno nel nord della Siria per impedire la formazione di una regione curda autonoma sul confine sud-orientale, la normalizzazione rimarrà lontana dalla realtà.

Da parte sua, Kılıçdaroğlu ha dichiarato di voler dare spazio alla “diplomazia degli Stati” e al dialogo internazionale, mettendo da parte la “diplomazia del leader” tanto perseguita da Erdoğan. Kılıçdaroğlu vuole porre fine all’eccessivo attivismo turco, e sembra avere tratti più marcatamente europeisti e atlantisti. Tuttavia, è improbabile che le prossime elezioni portino a un drastico e improvviso cambio di rotta nel breve periodo, almeno per quanto riguarda gli impegni presi da Ankara con l’Ue (ad esempio sulle questioni migratorie, di sicurezza ed energetiche) e i suoi profondi legami economici con Mosca. Dopo le elezioni, gli attori regionali e internazionali saranno nuovamente chiamati a scegliere se fidarsi della futura leadership turca – qualunque essa sarà – come alleato occidentale cruciale o se guardare ad Ankara come ad un paese dalla politica estera indipendente dai vecchi schemi e allineamenti.

Foto di copertina EPA/ERDEM SAHIN

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