Con le primarie a oltre metà percorso e a poco più di sette mesi dalle elezioni presidenziali negli Usa, sembra ormai consolidata la prospettiva che sarà Trump il candidato del partito repubblicano, ora allineato, salvo rarissime eccezioni, sulle posizioni dell’ex Presidente. Analogamente, sul fronte del partito democratico sembra da considerare acquisita la candidatura dell’attuale Presidente in carica, malgrado il pesante handicap dell’età, qualche problema di salute e le perplessità che emergono da vari settori del suo stesso partito e perfino da diversi organi di stampa normalmente vicini ai democratici. Salvo sorprese le due nomination alle rispettive conventions dovrebbero essere poco più che formalità.
Alle presidenziali americane 2024 si ripeterà la sfida Biden contro Trump
Se alle elezioni del prossimo novembre si assisterà a una replica della sfida fra Biden e Trump del 2020, gli americani si troveranno a scegliere tra due candidati molto anziani, entrambi deboli (anche se per motivi diversi), ambedue con una base elettorale caratterizzata da un marcato profilo identitario. Dovranno decidere tra due candidati che rappresentano due “Americhe” profondamente diverse e contrapposte e che ripropongono lo scenario di un Paese diviso verticalmente su quei valori e principi che dovrebbero essere alla base del corretto funzionamento della democrazia della nazione che resta pur sempre la più ricca e potente del mondo.
I sondaggi più recenti danno il candidato repubblicano in testa sia pure di misura. La sensazione prevalente è che contro Biden giochi soprattutto il fattore età – con la conseguente impressione di fragilità, malgrado l’ottimo andamento dell’economia americana e del mercato del lavoro – e una gestione accorta e responsabile della politica estera. Contro di lui anche la crescente sensazione d’impotenza degli Usa rispetto al conflitto in Ucraina e, ancora di più, alla ripresa del conflitto israelo-palestinese, malgrado l’impegno della Amministrazione. A suo sfavore, infine, vi sono l’impatto dell’inflazione sul potere d’ acquisto dei ceti medi e la percezione di una scarsa capacità di gestire flussi migratori e sicurezza interna, soprattutto nelle grandi città. La campagna elettorale di Donald Trump
Trump, convinto di non essere riuscito, nel suo precedente mandato alla Casa Bianca, a realizzare il suo programma elettorale per le resistenze del cosiddetto “deep state”, ha già minacciato di attuare un drastico ricambio a tutti i livelli della dirigenza federale, con l’obiettivo di fare affidamento esclusivamente su collaboratori di fede provata. Inoltre, sta trasformando i processi avviati contro di lui da varie procure statali e federali in altrettante occasioni per presentarsi, con un certo successo, come un perseguitato politico. Sta anche conducendo una campagna elettorale, secondo il suo inimitabile stile, con dichiarazioni clamorose e spiazzanti, che sarebbero inammissibili per qualsiasi persona di buon senso, ma che sono in grado di mobilitare il suo elettorato. E la fa promettendo meno Stato e più mercato, sgravi fiscali e meno spesa pubblica, più sicurezza interna e contrasto più efficace delle migrazioni, la fine delle politiche ambientali e degli impegni sulla transizione energetica e sulla decarbonizzazione. Promette un’America più in grado di tutelare autentici interessi nazionali, più isolazionista e meno propensa ad assumersi le responsabilità che dovrebbero competere a una grande potenza una volta egemone, più favorevole a declinare le relazioni con gli altri attori sulla scena internazionale sulla base di rapporti di forza e, infine, poco interessata a ripristinare un multilateralismo efficace e istituzioni internazionali funzionanti.
La partita è ancora aperta e molto può ancora succedere prima di novembre. Ma la prospettiva di un ritorno di Trump alla Casa Bianca non può essere scartata anche perché l’ipotesi di una rielezione dell’ex Presidente repubblicano che, secondo le nostre sensibilità, rappresenta una minaccia per la democrazia negli Usa e un incubo per la componente più moderata del Paese, è convintamente sostenuta perlomeno da metà dell’elettorato americano. I rischi di un secondo mandato di Trump per gli alleati europei
Un ritorno di Trump rischia di provocare una soluzione di continuità traumatica, con la rimessa in discussione di valori, principi e politiche caratteristiche degli Stati Uniti e sancirebbe una lacerazione profonda nella società americana. Provocherebbe, inoltre, una forte discontinuità quanto al ruolo del Paese sulla scena internazionale e, soprattutto, rappresenterebbe una fonte di grandi preoccupazioni per i suoi alleati europei.
Pur scontando la notoria imprevedibilità dell’ex Presidente e le scarse indicazioni finora fornite su un suo ipotetico programma organico di politica estera, è facile prevedere che per gli europei un suo ritorno comporterebbe seri problemi di gestione del rapporto transatlantico. Anche senza prendere alla lettera le sue dichiarazioni più clamorose sulla Nato, che lasciavano presumere un prossimo disimpegno americano, appare verosimile che la solidità e la credibilità dall’Alleanza Atlantica possano subire un serio ridimensionamento. Sicuramente con Trump di nuovo alla Casa Bianca diventerebbero molto più pressanti le richieste agli europei perché spendano di più per la loro difesa. Trump in fondo non ha mai creduto nel valore strategico del rapporto con gli europei, dimostrando in più occasioni di considerare l’Ue con un misto di fastidio e condiscendenza, preferendo stabilire relazioni con singoli Paesi europei più congeniali. Senza contare poi che un suo successo contribuirebbe verosimilmente a rafforzare anche in Europa la popolarità di formazioni politiche dichiaratamente sovraniste ed euro-scettiche, rischiando di accentuare le distanze fra Paesi dell’Ue come conseguenza di una maggiore convergenza o divergenza rispetto a Trump e alle sue politiche.
La politica estera dell’ex Presidente
Un cambio della guardia a Washington potrebbe poi segnare una soluzione di continuità nella posizione americana sulla guerra in Ucraina, con la sospensione degli aiuti militari americani e la tentazione di realizzare un accordo con la Russia, anche al costo di forzare soluzioni indigeste per l’Ucraina. Ugualmente, potrebbe comportare un diverso posizionamento degli Usa rispetto al contesto medio-orientale, con un allentamento delle pressioni americane sul governo israeliano, la definitiva rinuncia all’ipotesi di un accordo sulla base della formula dei due popoli e due Stati e con la ripresa di una più aggressiva politica di contenimento dell’Iran. Due possibili sviluppi che, come minimo, accentuerebbero le distanze dagli europei.
Verosimile anche aspettarsi che un’amministrazione americana a guida Trump adotti nuove misure protezionistiche e limitazioni delle importazioni, a tutela di produzioni nazionali e posti di lavoro negli Usa, minacciati dalla concorrenza dall’estero. E non solo contro la Cina (come già annunciato) ma anche nei confronti degli alleati europei. A nalogamente, con il venire meno dell’interesse degli Usa per l’Europa come partner strategico e con una probabile maggiore concentrazione di interesse su Asia e Indo-pacifico, potrebbero essere rimesse in discussione altre forme di cooperazione (come il Trade e Technology Council) su cui europei e americani fanno attualmente affidamento per regolare in maniera cooperativa sfide comuni su temi di attualità (sicurezza economica, sviluppi del digitale, regolazione dell’intelligenza artificiale), ma potenzialmente divisivi.
Gli europei non votano alle presidenziali americane ma, se potessero esprimere una preferenza, il buon senso dovrebbe indurli a favore dell’usato sicuro di Biden rispetto a un Trump imprevedibile e destabilizzante. Anche se, magra consolazione, va riconosciuto che il ritorno di un Presidente americano così poco sensibile alle preoccupazioni e agli interessi degli europei potrebbe fare il miracolo di costringerli a impegnarsi sul serio per realizzare concretamente il progetto di una autonomia strategica dell’Europa.