L’eco delle elezioni turche nella penisola balcanica

L’eco delle elezioni amministrative turche si è diffusa oltre i confini nazionali. In particolare nella penisola balcanica sono state osservate con attenzione da Grecia, Albania, Kosovo e, più giù, nell’isola di Cipro e i motivi sono intrinseci se si pensa alla loro storia, sia passata che recente, e all’attualità.

“Ha vinto Imamoglu o ha perso Erdogan?”: rispondere significa capire la dimensione del risultato elettorale, che aveva come punto di partenza Istanbul (in terra ellenica ancora denominata Costantinopoli). “Le elezioni di domenica scorsa non sono state vinte dall’opposizione ma perse interamente dal regime a causa delle sue scelte” sono i pareri conformi tra gli osservatori di Atene.

Oltre alle cause più evidenti (errori in economia, nepotismo, un proliferare di leggi) a Erdogan viene attribuito l’errore di avere indebolito, se non svuotato, la forza del suo partito AKP; infatti il suo culto della personalità ha relegato al ruolo di comprimari gli altri militanti di fronte a altri politici di spessore. Questo offre lo spunto per la mossa successiva: ora i sindaci vincenti di Istanbul e Ankara godono dei favori per sfidare alle prossime presidenziali il “Sultano”.

Grecia

Ma cosa significa tutto questo per la Grecia? Secondo alcuni, poiché per i prossimi 4 anni Erdogan non avrà più elezioni davanti a sé, egli si trova nella posizione di moderare la sua retorica aggressiva pre-elettorale, eventualmente concentrandosi sulla politica interna.

Inoltre, le esigenze della sua economia non certo in buona salute lo costringeranno a normalizzare ulteriormente i rapporti con l’Occidente, che “passano” necessariamente anche attraverso la Grecia (intesa quest’ultima come filtro naturale verso l’Oriente). Secondo autorevoli fonti diplomatiche riferite dalla stampa, l’ottimismo di Atene sul dialogo greco-turco dipende dalle assicurazioni ricevute dalla parte turca, cioè nessun cambiamento da parte di Ankara.

Secondo altri osservatori, il futuro dipende dal pessimo stato dell’attuale economia turca. Questo porterà Erdogan ad adottare misure repressive in patria con ripercussioni all’estero. Un’escalation della sua politica, per esempio, nei confronti dei Curdi in Iraq peggiorerebbe in ogni caso i rapporti con l’Occidente e quindi verrebbe meno la motivazione a mantenere tranquillo il clima con la Grecia.

Questa sconfitta sarà l’inizio della fine per Erdogan? È prematuro parlare di un Erdogan finito, ma sicuramente segna l’inizio di un nuovo periodo. È vero che il voto dell’AKP è diminuito e sembra esserci voglia di cambiamento, ma Erdogan è un uomo e politico pragmatico. Egli è capace di costruire alleanze e cambiare strategie. Cercherà di minimizzare l’impatto del risultato elettorale e resterà al potere fino al 2028. Ci riuscirà? Se si sommano le percentuali dell’AKP a quelle dei partiti più piccoli islamici e di estrema destra, equivalgono alla coalizione di opposizione. E se i valori numerici restano questi, sappiamo bene che in democrazia i voti si contano e non si pesano. “Quindi non sappiamo ancora se Erdogan perderà le prossime elezioni presidenziali. E fino ad allora sarà l’economia a decidere la sfida politica ” è la conclusione ad Atene.

Intanto da Bruxelles è stato proprio Kyriakos Mitsotakis ad annunciare la sua visita ad Ankara il prossimo 13 maggio. Dunque, vista l’agenda con questa imminente scadenza, è proprio la parte greca che per il momento non vuole un Erdogan in difficoltà, una buona immagine nelle relazioni è un’ottima carta in vista delle elezioni europee. Pertanto, Atene e Ankara continuano a concentrarsi su obiettivi a breve e medio termine, poiché l’attuale calma faciliterà ulteriormente la preparazione dell’incontro. Quanto ai contenuti ci sarà forse un “pacchetto” di accordi anche sull’immigrazione, dicono fonti diplomatiche, con l’obiettivo di mantenere stabili i flussi.

Cipro

Chi invece non usa giri di parole per manifestare il suo pessimismo è la stampa cipriota che dà voce alla politica e all’opinione pubblica. Il prossimo luglio saranno i cinquanta anni dall’operazione Attila, le cui conseguenze sono ancora tangibili, con un terzo del territorio occupato dalle forze armate di Ankara. La stampa di Atene e di Nicosia li chiama “ta katehomena” τα κατεχόμενα appunto “territori occupati “. Qui i risultati sono visti come una questione riconducibile al malcontento economico interno turco. E ciò non dissimula nessun ottimismo.

“Imamoglu o Erdogan fanno poca differenza sulla questione cipriota”. Infatti a Nicosia sono meno soft e molto più drastici. Qui l’invito è a non sottovalutare Erdogan e a non beatificare Imamoglu.

La sconfitta di Erdoğan è dovuta piuttosto al deterioramento dell’economia e all’evidente frustrazione della maggioranza dei cittadini, che faticano a sopravvivere a causa dell’inflazione alle stelle. Inoltre, il partito di Imamoglu punta proprio come Erdogan sul nazionalismo turco e sulle minacce e rivendicazioni contro la Grecia e Cipro. Nessuna differenza sostanziale nella sua politica estera, sostenuta con toni diversi senza modificare gli antichi obiettivi. Atene e Nicosia non dovrebbero quindi sottovalutare il Sultano, né sopravvalutare Imamoglu, detto “Bill Clinton di Trebisonda”.

I turchi sono ritenuti abili a recitare con il buon Primo Ministro e la cattiva opposizione o viceversa. La professionalità della diplomazia turca è riconosciuta in modo unanime. Dalle pagine del quotidiano Simerinì le relazioni greco turche buone a tutti i costi vengono definite pessimo teatrino. Il timore è che il prezzo che la Grecia alla fine sia indotta a pagare sia lasciare da parte il noto fardello irrisolvibile: το Κυπριακο, la questione cipriota. I ricordi dell’operazione Attila non si sono mai sopiti, dunque, non si può nemmeno parlare di risveglio.

Kosovo

Di tutt’altro avviso, per gli analisti del Kosovo il risultato delle elezioni non resta indifferente nella penisola balcanica, proprio perché la Turchia con tutte le sue contraddizioni non è più un Paese chiuso al mondo.

Nel paese di Ataturk risiedono numerose persone di etnia albanese e, a prescindere dal risultato, gli interessi comuni sono così tanti che i rapporti devono essere buoni. Tra l’ironico e il sarcastico, su Kosova Post si legge che le elezioni le hanno vinte tutti, maggioranza e opposizione, religiosi e laici che “possono continuare a bere tranquillamente il raki,” l’acquavite tipica di molti paesi balcanici introdotta proprio dagli ottomani.

La Repubblica del Kosovo è un paese giovane ed è molto attento a mantenere stabili gli equilibrio nello scacchiere internazionale. Quindi con abilità, che in altri tempi avremmo definito democristiana, usa toni validi per tutte le stagioni.

Albania

In Albania le elezioni amministrative turche erano state precedute dall’accordo di collaborazione mediatica tra i due governi, che però ha prodotto effetti di ritorno per lo più discordanti. Il contenuto prevede lo scambio di programmi di ogni genere e quindi di trasmissione e diffusione in modo libero, senza che una delle parti debba pagare dazio all’altra. Le critiche quasi unanimi sottolineano come sotto il velo della liberalità si nasconda il via libera alla propaganda di Erdogan.

Qualcosa di simile è accaduto con gli accordi tra Turchia e Macedonia del Nord. A urne chiuse l’opposizione del PD (destra) non ha perso l’occasione di indicare Edi Rama come causa principale del risultato sfavorevole a Erdogan e la presenza di molti albanesi come un fallimento dell’attuale governo. Ma, appunto, è analisi di politica interna, frutto di proiezione entro i confini.

La cosa principale che emerge a più di cento anni dalla fine dell’impero ottomano è che l’eco della storia non si è mai abbassato, quello che accade ad Ankara produce effetti nei territori una volta impero. Come diceva l’artista greco Nikos Engonopoulos “Questi sono i Balcani, non uno scherzo”

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