Giorgia Meloni e l’Ue: tra pragmatismo politico e retorica sovranista

Fino a che punto Giorgia Meloni e il governo da lei presieduto sono un pericolo per l’unità europea? La domanda attraversa legittimamente non solo il dibattito italiano, ma anche quello degli altri paesi dell’UE. Una chiave di lettura utile è quella di distinguere la retorica dalla realtà. Cominciando dalla realtà, si tratta in sostanza di capire fino a che punto la politica del governo italiano si inserisce nel “main stream” delle strategie europee. Ciò implica un costante dialogo costruttivo non solo con la coppia franco-tedesca, ma con molti altri a prescindere dal colore del loro governo.

Le politiche messe in campo dal governo Meloni

La politica estera e di sicurezza

Il primo tema è quello alla politica estera e di sicurezza, in primo luogo rispetto all’aggressione della Russia all’Ucraina. Su questo la politica dell’Italia si è dimostrata impeccabilmente europea e atlantica; si potrebbe dire, non solo sulla perfetta scia del Governo Draghi ma anche di quelli che lo hanno preceduto. È opportuno notare che, pensando per esempio all’aiuto militare concreto all’Ucraina, le parole non sono sempre state seguite dai fatti; l’Italia resta peraltro uno dei paesi dell’UE quello che sono ancora lontani dal raggiungere il 2% sul PIL delle spese destinate alla difesa. È tuttavia legittimo pensare l’attuale opposizione non avrebbe fatto meglio.

La politica economica

Il secondo tema è quello della politica economica che trova il suo punto centrale nel cosiddetto “patto di stabilità”. Dopo un lungo negoziato si è raggiunto a Bruxelles un compromesso. Durante il negoziato le richieste del Governo erano coerenti con la tradizionale posizione italiana.

La transizione climatica

Il terzo tema è quello della transizione climatica e delle politiche necessarie per gestirla. Non c’è dubbio che in questo caso l’atteggiamento del governo Meloni è più riservato di quello di un ipotetico governo di centro-sinistra. C’è tuttavia da notare che il tema, dopo gli entusiasmi iniziali, è attualmente oggetto di molte controversie in tutta l’Europa. Sul “patto verde”, l’ora europea è attualmente al compromesso e al negoziato per tener conto delle reazioni che si manifestano in vari settori della società. Da questo punto di vista, la posizione del governo italiano non è lontana da quella degli altri maggiori partner.

L’immigrazione

Il quarto tema è quello dell’immigrazione. L’Italia ha aderito a un compromesso europeo che, se incarna l’indurimento voluto dalla totalità dei paesi membri, è molto lontano dalle posizioni demagogiche annunciate da Meloni in campagna elettorale. Del resto, il punto centrale del negoziato per l’Italia è stato lo stesso portato avanti dai governi precedenti: la complessa questione delle responsabilità dei paesi di primo ingresso e della ripartizione degli arrivi.

Da tutto ciò è possibile trarre una conclusione. Giorgia Meloni, eletta per “difendere l’interesse nazionale”, ha capito che esso coincide con la volontà del paese di far parte del “main stream” europeo e di contribuire attivamente al suo consolidamento. Ha dunque compreso che l’interesse nazionale coincide con il “vincolo europeo e atlantico” che ha guidato la politica dell’Italia negli ultimi 70 anni. Vincolo che conferma la sua funzione di importante elemento di ancora democratica per la Repubblica italiana. Oltre alla partecipazione attiva ai negoziati che hanno condotto ai compromessi finali, Meloni ha stabilito con discreto successo un rapporto personale con vari leader europei e occidentali, anche se a lei non politicamente vicini, trovandosi peraltro su posizioni distanti da altri a lei teoricamente vicini come l’ungherese Victor Orban. Tra l’altro, molte delle posizioni adottate in fase negoziale erano accompagnate dalla richiesta di maggiore solidarietà, soprattutto sotto forma di finanziamenti comuni. In altri termini, una richiesta di “più Europa”: in fondo, la posizione italiana da sempre.

La retorica del governo Meloni

Se passiamo dalla realtà alla retorica, dobbiamo constatare che ognuna delle scelte illustrate in precedenza è stata invece presentata e difesa di fronte all’opinione pubblica come una totale rottura con le politiche “imbelli e rinunciatarie” dei governi precedenti. Inoltre, mentre in pratica lavora con successo con l’UE quale è, Meloni continua a parlare di una scelta radicale fra un mitologico “leviatano burocratico” e una altrettanto mitologica “Europa delle nazioni”. In sostanza una retorica tipica dei populisti sovranisti che tende a criticare l’Ue non per ciò che fa, ma per ciò che è; o che si pretende che sia. Una simile disconnessione fra realtà e retorica serve a rassicurare un elettorato in parte sensibile alle promesse della campagna elettorale, ma soprattutto a neutralizzare gli attacchi dello scomodo alleato costituito dalla Lega di Matteo Salvini. Serve paradossalmente anche a obbligare l’opposizione ad arrancare per criticare compromessi non molto distanti da quelli che avrebbe verosimilmente accettato se fosse stata al potere.

A questo punto, sorge legittima una domanda: c’è un prevedibile punto d’arrivo per il percorso politico di Giorgia Meloni? Coloro che credono nella sua progressiva trasformazione in una leader “normale” del conservatorismo europeo, probabilmente si sbagliano. La scelta del realismo in Europa è dettata dal buon senso, ma è in gran parte opportunistica. Le radici culturali della retorica sovranista sono invece molto forti. Anche a prescindere dalle vere o presunte nostalgie fasciste, è una cultura impregnata di statalismo e la cui dimestichezza con l’economia di mercato è a dir poco episodica. Dobbiamo quindi rassegnarci a vivere con la disconnessione fra retorica e realtà.

Sorge allora un’altra domanda: quanto è sostenibile quella disconnessione senza che Meloni debba affrontare, all’interno o in Europa, delle scelte politicamente costose? Ci sono alcuni nodi che arriveranno inevitabilmente al pettine per quanto riguarda le implicazioni degli impegni presi dall’Italia a livello europeo, per esempio in materia di bilancio, di politica industriale, o anche d’immigrazione. Inoltre se, come è auspicabile, dovessero maturare alcune proposte dell’Italia e di altri di progredire verso “più Europa”, Meloni dovrebbe spiegare al suo elettorato che nell’Ue ciò comporta sempre e necessariamente qualche condivisione aggiuntiva di sovranità.

Resta infine l’incognita probabilmente maggiore. La scelta italiana di inserirsi nel “main stream” europeo dipende in gran parte dall’equilibrio politico del resto dell’Ue. Una modifica importante a favore di populisti sovranisti nell’equilibrio fra governi comporterebbe per Meloni un serio problema di ridefinizione “dell’interesse nazionale”. Gestire Orban o anche Fico, persone e governi alquanto marginali e i cui interessi sono lontani da quelli italiani, è relativamente facile; in realtà è un compito in cui Meloni può aiutare il “main stream”. Alla fine il vero cigno nero, la questione che potrebbe far saltare gli equilibri e compromettere l’attuale strategia, sarebbe una vittoria di Marine Le Pen alle prossime elezioni francesi. Stiamo però parlando del 2027, data ancora lontana.

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