Il rapporto di Enrico Letta: un mercato finanziario unico per l’Europa

Nel pieno delle crisi multiple (guerra in Ucraina, Medio Oriente, rivalità strategiche tra gruppi di medie e grandi potenze, concorrenza economica spietata fra le grandi aree produttive) l’Unione Europea cerca il suo “momentum”, il modello di spinta per evitare un indebolimento complessivo della sua posizione nel mondo. La leva che può cambiare le cose, superando lo stanco evoluzionismo istituzionale, si condensa nel trinomio “unione mercato capitali”. È uno dei punti qualificanti del rapporto sul mercato interno dell’Ue che l’ex premier Enrico Letta ha preparato per il Consiglio Europeo. Si affianca al rapporto sulla competitività che sta preparando per giugno (dopo il voto) Mario Draghi. È facile ritenere che la sintonia tra i due estensori sarà pressoché totale.

L’unione del mercato dei capitali è una di quelle visioni comprensibili solo agli addetti ai lavori: in soldoni si tratta di avere un mercato finanziario integrato, senza barriere interne, con regole e vigilanza comuni, in grado di finanziare l’economia europea. Lanciata nel 2015, i progressi sono limitati. Non è andata come per l’unione bancaria: in reazione alla crisi finanziaria originata dagli Usa alla fine del primo decennio del secolo e poi prolungatasi con la crisi del debito sovrano, la vigilanza bancaria nell’area euro è di fatto centralizzata sotto l’egida della BCE, tassello del “federalismo monetario” europeo. Per le banche si è proceduto dall’alto, per i mercati finanziari si è proceduto dal basso con il risultato che restano sostanzialmente nazionali.

L’Europa non può più fare a meno di un mercato finanziario unico

Avere o meno un mercato dei capitali senza barriere fa la differenza per il finanziamento dell’economia e qui il divario tra Ue e Usa è enorme. Per esempio, il finanziamento azionario a fine 2023 rappresentava solo l’84% del Pil dell’area euro contro il 173% negli Stati Uniti. Il fondo venture capital europeo più grande (investimenti in imprese start-up o ad alto potenziale di crescita) è inferiore per importo raccolto al decimo più grande americano. Non avere un mercato finanziario unico priva l’Europa di una risorsa di cui non può più fare a meno. Letta spiega ai capi di stato e di governo, in linea con Draghi, che l’Ue non può permettersi il lusso di non fare nulla. Ricorda nell’Ue ci sono 33 mila miliardi di risparmi privati, che ogni anno circa 300 miliardi lasciano l’Europa per dirigersi negli Usa. Risparmio europeo che torna in Europa sotto forma di investimenti per finanziare lo shopping di importanti imprese europee. Un paradosso.

La leva della finanza europea integrata è decisiva nel momento in cui si accumulano le transizioni epocali: “verde”, digitale, difesa/sicurezza, nuova fase di allargamento dell’Unione europea (Balcani e in prospettiva Ucraina e Georgia), rafforzamento delle coperture sociali (sempre più importante se si vuole mantenere il consenso dei cittadini al Green Deal). In gioco ci sono la difesa del tessuto industriale europeo, la risposta allo spiazzamento nella produzione di pannelli solari, batterie, chip elettronici, intelligenza artificiale, la riduzione della dipendenza da produzioni di punta effettuate altrove e dalle materie prime e rare importate.

Lo sforzo di investimenti necessario è immane, si calcola in diverse centinaia di miliardi di euro per anno per molti anni. Solo per transizione verde e digitale circa 750 all’anno fino al 2030. Sono i conti minimali di un IRA europeo (riferimento all’Inflation Reduction Act che sostiene la svolta industriale e verde negli USA). Non basteranno le casse degli stati, in tempi di debiti pubblici alle stelle, né il canale bancario, che costituisce la principale fonte di finanziamento delle imprese. E neppure le risorse europee attuali: il bilancio Ue vale meno di 1.100 miliardi per 7 anni, se ne aggiungono 800 di Next Generation EU fino al 2026. Certamente, c’è la Banca europea degli investimenti, di cui sono azionisti gli stati Ue, che ha una capacità effettiva di mobilitazione di capitali privati, però dovrebbe essere ricapitalizzata per aumentarne la potenza.

L’opzione proposta da Letta: un “safe asset” unificato

L’azione proposta da Letta implica superare divisioni profonde: un fronte di paesi guidato dal Lussemburgo si oppone alla prospettiva di supervisione centralizzata dei mercati finanziari; un altro fronte spinge per forzare le tappe creando un prodotto di risparmio comune europeo per aggregare l’offerta di capitali, assicurare un buon rendimento ai sottoscrittori e fondi per investire in progetti europei, procedendo anche con un gruppo di volontari. È l’idea francese appoggiata dall’Italia. Il cancelliere Scholz è incline a seguire queste strade, ma il governo tedesco appare diviso. Letta propone di forzare le tappe emettendo entro il 2026 un “safe asset” unificato centralizzando tutte le emissioni di obbligazioni Ue per convogliare i risparmi dei comuni cittadini nel finanziamento dell’economia reale. Non è una strada spianata perché la concorrenza nel mercato delle emissioni è effettiva e nessun governo vuole rischiare spiazzamenti nelle preferenze degli investitori (i bond Ue hanno la massima valutazione delle agenzie di rating). Sarebbe un passo rilevante anche per gli effetti positivi per la trasmissione della politica monetaria unica e per il ruolo globale dell’euro. Economia e ruolo geopolitico si intrecciano.

La leva del mercato dei capitali unificato coronerebbe l’azione più generale per integrare i mercati dell’energia e delle telecomunicazioni, settore quest’ultimo in cui gli operatori sono troppi e l’economia di scala minimale rispetto a Usa e Cina. Sarebbe poi utile per allentare la pressione sugli aiuti pubblici alle imprese: Letta propone più rigore a livello nazionale compensato da più sostegni a livello europeo e immagina un meccanismo che imponga ai paesi di destinare una parte dei loro finanziamenti nazionali alle imprese al sostegno di investimenti paneuropei. Anche su questo la strada non sarà in discesa. Inoltre, lo sblocco del mercato dei capitali potrebbe convincere gli stati “frugali”, Germania in testa, ad accettare emissioni di debito comune, anche questa una prospettiva inevitabile se l’Ue vuole davvero evitare lo spiazzamento competitivo con Stati Uniti e Cina, che sono in grado di sostenere l’industria nazionale con ingenti trasferimenti e impiego di denaro pubblico (nel caso cinese a suon di pratiche sleali di sussidio).

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