Guerra chiama guerra

A quel che sembra, guerra chiama guerra. L’avidità imperialista che ha spinto la Russia ad attaccare l’Ucraina sta accrescendo il coinvolgimento di tutto il continente europeo in quelle regioni dove la guerra non si è mai arrestata, in Medio Oriente e in Africa. 

L’attentato terrorista dell’Isis al Crocus City Hall di Mosca è stato concepito e diretto dalle basi che questa organizzazione ha in Afghanistan. L’Isis, a sua volta, è stato certamente stimolato a un maggiore attivismo, anche al di fuori delle sue aree tradizionali di intervento, dal mostruoso attacco condotto da Hamas contro Israele, il 7 ottobre scorso. Dapprima si era mosso in Iran, con l’attentato di Kerman, puntando con un certo successo ad alimentare il conflitto con il Pakistan. Contemporaneamente aveva sviluppato un maggiore attivismo in Iraq e in Siria, contro americani, russi, il governo di Assad, e in concorrenza con Hezbollah (che appoggia Assad, ma è anti americano e anti israeliano), quest’ultimo sinora tenuto parzialmente a freno da Teheran, per evitare uno scontro diretto con Israele.

Ecco dunque che il fronte orientale dell’Europa comincia a saldarsi con quello mediterraneo e medio orientale, già sollecitato dai drastici mutamenti sopravvenuti nel mercato energetico in seguito al forzato riorientamento verso l’Asia delle esportazioni russe (e iraniane). La Cina e qualche altro stato, come l’India, ne approfittano tatticamente per ridurre la loro bolletta energetica, ma nel complesso le guerre influenzano negativamente la crescita dell’economia globale. Anche perché gli effetti di conflitti solo apparentemente circoscritti geograficamente sono a volte sorprendenti. Chi aveva previsto che la guerra a Gaza avrebbe avuto un forte impatto negativo sulla libertà di navigazione e sulle rotte e i costi del commercio navale?

Gli effetti sociali della guerra e le conseguenze della nuova rivoluzione tecnologica 

Gli effetti possono essere perfino più complessi. La crescita tumultuosa dell’antisemitismo ha ormai investito anche i maggiori e più prestigiosi centri di formazione della gioventù occidentale, da Harvard alla Normale di Pisa. Per tali vie cresce la frammentazione e la litigiosità all’interno della società occidentale, risvegliando antichi spettri e alimentando la faziosità tipica dei social media, con effetti devastanti sul dibattito politico e quindi sulla tenuta stessa dei nostri sistemi democratici.

Alcuni leader politici si stagliano come i maggiori profittatori e, allo stesso tempo, come coloro che più contribuiscono ad alimentare questo disordine, da Vladimir Putin a Benjamin Netanyahu, passando per Donald Trump. Ma non sono certamente i soli: la tentazione di cavalcare assieme ai cavalieri dell’apocalisse è forte anche in molti altri casi.

In questo disordine stiamo anche sperimentando i primi passi di quella che si annuncia come una nuova grande rivoluzione tecnologica destinata a ridisegnare gli equilibri nati dalla rivoluzione industriale del passato (e quindi anche le forme di aggregazione sociale, lo svolgimento delle guerre, la tenuta e l’evoluzione dell’attuale sistema di Stati nazionali, e molto altro ancora). Se attualmente le promesse di questa rivoluzione sono appena abbozzate, già cominciano invece a sentirsi gli effetti trasformativi sul mercato del lavoro e sul tessuto connettivo delle società più sviluppate (che più hanno guadagnato dalle rivoluzioni passate). La protesta e il timore del mutamento sono quindi più forti delle promesse per il futuro e accrescono le difficoltà della transizione.

D’altro canto il processo innescato è ormai irreversibile, anche perché sembra offrire al cosiddetto Sud del Mondo, che meno aveva potuto profittare delle passate rivoluzioni industriali, un’occasione per accrescere significativamente il suo peso e la sua concorrenzialità. Si tratta quindi, dal nostro punto di vista, di cercare di dare ordine e significato alla rivoluzione tecnologica, perché essa non vada a contrapporsi alle conquiste politiche e sociali che caratterizzano in positivo i nostri paesi. Si tratta, altresì, di non abbandonare il controllo e il governo di questa rivoluzione tra le mani di sistemi antagonisti che vorrebbero piuttosto rompere tale continuità.

Non uno scenario facile dunque, perché alla conflittualità più tradizionale, alimentata dal fanatismo o dalla volontà di potenza, se ne accompagna anche una di tipo sistemico – o quanto meno una fortissima competizione – per decidere sulle forme future del governo della globalizzazione.

L’importanza di trovare soluzioni comuni a problemi globali

Ma naturalmente anche gli scenari più disastrosi e conflittuali hanno al loro interno importanti controspinte. Il sistema internazionale è ancora forte e non sembra voler cedere facilmente alle spinte autodistruttive. Pensiamo alla flessibilità con cui riesce a gestire i mutamenti, anche quelli apparentemente più complessi, come la riorganizzazione del mercato energetico, e soprattutto alla resilienza delle catene di produzione del valore, che sopravvivono alle divergenze politiche e impongono un livello accettabile di cooperazione tra opposti sistemi.

C’è una generale e diffusa consapevolezza sulla necessità di trovare soluzioni comuni a problemi globali, che i singoli Stati, per grandi e potenti che siano, non riescono in realtà ad affrontare da soli – dall’ambiente alle pandemie, alla gestione delle conseguenze della rivoluzione tecnologica in atto –, anche se i diversi punti di partenza a volte mascherano l’esistenza di un forte interesse comune e rendono lento e difficile questo processo. C’è persino una confusa, ma reale ripresa dell’iniziativa europea, ancora molto parziale e insufficiente, ma comunque in netta controtendenza con le spinte disgregatrici e conflittuali.

Gli scenari di guerra tendono a polarizzare l’attenzione delle opinioni pubbliche e ad accrescere divisioni artificiose tra i partigiani dei campi contrapposti, quasi ci si trovasse ad assistere allo scontro tra opposte tifoserie. In realtà non possiamo puntare a chiarissime soluzioni che individuano senza possibili dubbi i vincitori e i vinti. Certamente la guerra di Gaza non si concluderà con una resa incondizionata e la guerra in Ucraina passerà probabilmente, nel migliore dei casi, per un difficile compromesso. D’altro canto, al di là di Putin e delle ossessioni che sembrano oggi mobilitare troppa parte della leadership russa, è forse interesse dell’Europa spingere la Russia sempre più verso l’Asia e rinnegare secoli di ravvicinamento tra Mosca e l’Occidente?

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