Divisioni e prospettive del Jihad globale

Il 2022 è stato un anno intenso e denso di eventi fondamentali se guardato dal punto di vista delle dinamiche e degli sviluppi del movimento jihadista globale. L’uccisione del leader di Al-Qaeda, Ayman Al-Zawahiri, ha certamente rappresentato l’evento principale da questo punto di vista, sebbene il suo impatto operativo sulle dinamiche del movimento sia stato limitato. Ancora ad oggi, al-Qaeda non ha ufficialmente annunciato la morte del proprio leader. anzi Anzi, Al-Sahab (Assahab) – il braccio mediatico dell’organizzazione – continua a pubblicare messaggi a nome di Al-Zawahiri, come l’eulogia dedicata al leader storico del Jihad tunisino, Abu Iyadh al-Tunisi, ucciso nel febbraio 2019 dalle forze francesi in Mali. Il futuro del movimento e della sua leadership globale resta ancora incerto.

Nel 2022, anche lo Stato Islamico ha conosciuto la decapitazione della propria leadership, con le forze americane che hanno ucciso il successore di Abu Bakr al-Baghdadi, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi nel nord della Siria nel febbraio 2022, in un raid delle forze speciali americani basate in Siria. Il suo successore, Abu Hassan al-Hashimi al-Qurashi, è durato poco però, visto che è morto in ottobre a Jasem, nel governatorato di Deraa in Siria, facendosi esplodere con un giubbotto imbottito di esplosivo durante un’operazione dell’Esercito siriano libero (FSA).

Lo Stato Islamico ha annunciato a fine novembre il nuovo leader in Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi. Nel mese di dicembre, i video e le foto dei vari giuramenti di fedeltà – o meglio, di sottomissione – al leader (conosciuto nella giurisprudenza come Bay’ah) dimostrano quanto i gruppi attivi nelle varie province restino attivi e – in molti casi – anche abbastanza numerosi.

In entrambi i casi, sia per al-Qaeda sia per lo Stato Islamico, questo passaggio è un ulteriore dimostrazione che la decapitazione delle rispettive leadership ha generalmente un effetto limitato rispetto alle capacità operative dei vari gruppi appartenenti a queste galassie.

La geometria variabile dell’espansione

La relativa indipendenza operativa dei vari gruppi operanti in nome di queste due organizzazioni comporta anche un’ulteriore sfida per le azioni di contrasto. Anche quando le leadership e i gruppi principali di queste organizzazioni sono andati sotto pressione a causa dell’azione di determinati Paesi (Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq negli anni 2000, Francia nel Sahel dal 2013 al 2022), questi movimenti hanno dimostrato di essere capaci di espandersi altrove, in una sorta di “geometria variabile” dell’espansione jihadista.

Questo adattamento dimostra, da un lato, una capacità particolarmente marcata sia di rispondere velocemente alle strategia di anti e contro-terrorismo di vari attori globali, e dall’ altro di adattarsi rapidamente e di saper leggere le dinamiche locali in molti territori dove questi gruppi avevano una presenza minima o inesistente. Ci sono vari esempi in tal senso: dopo gli attacchi dell’11 Settembre, Al-Qaeda centrale era sotto un enorme pressione in Afghanistan, ma ciò non comportò la fine dell’organizzazione o un vero e proprio indebolimento globale dell’organizzazione, ma anzi il gruppo riuscì a imporsi come attore mediterraneo con una serie di attacchi in serie – Djerba, Casablanca, Amman, Madrid – e usando l’invasione americana dell’Iraq come elemento di richiamo per il movimento jihadista globale – sul modello di ciò che fu l’Afghanistan negli anni ’80 con i sovietici.

In effetti, l’Iraq è stato poi l’incubatore anche dello Stato Islamico, che è riuscito a crescere anche se sotto crescente pressione nei territori del Califfato – Siria e Iraq – iniziando a imporsi altrove – Afghanistan, Libia, in varie parti dell’Africa in maniera relativamente strutturata. In Europa lo Stato Islamico ha operato con la serie di attacchi tra il 2015 e il 2017, con modalità diverse e più sfuggenti.

L’Africa come hotspot terroristico emergente

In questa geometria variabile dell’espansione globale del jihadismo, l’Africa è diventata uno dei teatri principali, se non il principale. I gruppi legati ad Al-Qaeda operanti in Mali e in Burkina Faso raggruppati nel Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin (JNIM – Gruppo di supporto per l’Islam e i musulmani) hanno dimostrato una capacità particolarmente marcata sia di adattarsi al contesto locale sia di rafforza la propria presenza per utilizzare questi paesi come piattaforme logistiche per lanciare azioni in paesi confinanti che storicamente non hanno mai rappresentato territori particolarmente significative nelle logiche jihadiste globali – si pensi al Togo, al Benin, o alla Costa D’Avorio nell’Africa occidentale.

In questi territori sono attivi anche i gruppi legati allo Stato Islamico, come quelli delle province del Grande Sahara o dell’Africa occidentale. Inoltre, le forze dello Stato Islamico hanno anche una presenza sempre più significative in paesi come il Mozambico o la Repubblica democratica del Congo.

Le divisioni del jihad globale

I gruppi e i militanti dei due movimenti, però, non collaborano, anzi, si combattono apertamente, come nel caso del Sahel o quello dell’Afghanistan dove lo Stato Islamico ha condotto 334 attacchi nel 2021, circa il 140% in più rispetto al 2020, in un chiaro tentativo di combattere e indebolire la leadership talebana legata ad Al-Qaeda sfruttando l’uscita delle forze americane.

Le divisioni del jihad globale hanno un effetto ambivalente. Da un lato, da un punto di vista sistemico e strutturale, riducono significativamente le possibilità per i movimenti jihadisti di rappresentare una minaccia, sia per il sistema internazionale nel suo insieme sia per i cosiddetti “nemici lontani” in primis gli Stati Uniti, i paesi europei e Israele. Un movimento più coeso a livello globale, e che utilizzi le proprie risorse – in molti casi limitate e sotto costante pressione – per unire le forze contro i nemici in comune – rappresenterebbe un livello più alto di minaccia.

In questo senso, queste divisioni aiutano il contenimento di queste forze. Da un altro punto di vista, però, più locale e specifico, tale competizione rappresenta una sfida e un problema per quelli che nella terminologia jihadista sono normalmente chiamati i “nemici vicini” – cioè i leader e i governi dei paesi e dei territori in cui operano.

Queste divisioni creano una sete di competizione per risorse – logistiche, militari, ed economiche – sempre più scarse, e soprattutto incentivano i gruppi jihadisti ad aumentare gli attacchi per mostrare sia la propria leadership locale sia per indebolire gli avversari. In tal modo, le popolazioni e i territori in cui la presenza degli avversari è forte diventano obiettivi per azioni militari o per vendicare attacchi subiti altrove. Inoltre, questa guerra intra-jihadista richiede anche un supporto non indifferente dal punto di vista economico, aumentando quindi i rischi di rapimenti – Al-Qaeda nel Maghreb Islamico ha costruito parte della sua fortuna sull’industria dei rapimenti nel Sahara a tra il 2008 e il 2012 – azioni estorsive contro le popolazioni locali e altro.

Il nuovo quadro strategico del jihadismo

Il quadro che emerge è quindi quello di un movimento che, complessivamente, nonostante le difficoltà e la decapitazione della leadership, resta attivo e capace di espandersi in determinati territori. L’Africa, da questo punto di vista, è il centro di tale “geometria variabile” di tale espansione, e il Sahel è sempre di più il centro di gravità per i gruppi jihadisti sia legati ad Al-Qaeda che allo Stato Islamico.

In questi spazi, però, questi gruppi si combattono anche apertamente. Da un lato, tali divisioni riducono la forza globale e la capacità di gruppi jihadisti di rappresentare una minaccia strutturale e sistemica – come venne percepita dopo gli attentati del 2001. Al tempo stesso tali divisioni alimentano una competizione locale che aggiunge un ulteriore elemento di difficoltà per i leader e i governi dei paesi in cui questi gruppi operano, perché incentivano non solo attacchi ma anche azioni volte a trovare nuovi canali di finanziamento per supportare sia il jihad contro gli stati regionali sia la guerra contro i concorrenti jihadisti.

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