Summit Russia-Africa: la ‘geopolitica alimentare’ nella guerra di Putin

Il 27 e il 28 luglio prossimi a San Pietroburgo si svolgerà il vertice Russia-Africa e vedrà la partecipazione di almeno una quarantina di delegazioni di Stati africani, sui 54 riconosciuti alle Nazioni Unite. Enfaticamente declamato come il Secondo Vertice del Forum Economico e Umanitario Russia- Africa, l’incontro segue il primo svoltosi il 23-24 ottobre 2019 a Sochi con lo slogan: “Per la pace, la sicurezza e lo sviluppo”.

Il programma è fitto di eventi: centrali saranno i panel su nucleare, ambiente, sviluppo, empowerment femminile e su “Nuovo ordine mondiale: dall’eredità del colonialismo alla sovranità”. Alla Commissaria per i diritti dell’infanzia Maria Lvova- Belova, incriminata insieme a Putin dalla Corte penale internazionale per il trasferimento forzato dei minori ucraini, è affidato il tema della tutela dell’infanzia nel panel “Promozione dei valori tradizionali sotto la pressione del liberalismo aggressivo”.

I documenti ufficiali russi parlano del fine di raggiungere  “un nuovo partenariato che risulti reciprocamente vantaggioso per affrontare le sfide del XXI secolo”, e di  “rafforzare una cooperazione globale e paritaria tra la Russia e i paesi africani in tutte le sue dimensioni: politica, sicurezza, economia, sfera scientifica, tecnica, culturale e umanitaria”. In buona sostanza si tratta di quell’immagine di una Russia filantropica verso i problemi dell’umanità del “Sud globale”, che Putin vorrebbe asseverare in quella parte del mondo per coalizzarlo conto l’Occidente. E ora il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov ha annunciato che “la Russia è pronta a inviare gratis grano ai Paesi africani bisognosi anche senza il Black Sea Grain Initiative”, precisando che della questione si discuterà proprio al forum di San Pietroburgo.

Di fronte a questa prospettiva che vorrebbe la Russia al centro di un nuovo ordine mondiale, è bene allora inquadrare le mistificazioni delle strategie di Putin partendo proprio dal ritiro dal c.d. “accordo sul grano”, più propriamente indicato come Black Sea Grain Initiative.

La geopolitica del grano

Per comprendere lo scenario occorre considerare diversi aspetti. Dall’attuazione dell’intesa sul grano si contano 39,2 milioni di tonnellate esportate, ma tra i primi cinque Paesi destinatari risultano per prima la Cina, in misura assolutamente rilevante con oltre 8 milioni di tonnellate, a seguire Spagna (6 mln), Turchia (3,2 mln), Italia (2,1 mln), Olanda (2 mln), e poi compaiono l’Egitto (1,6 mln) e il Bangladesh (1,1 mln). Dall’Africa figurano ancora, ma per quantità nettamente inferiori, Tunisia (713,5 k), Libia (558, 5 k), Kenya (437,5 k), e a fine lista Etiopia (282,5 k), Algeria (212,5 k), Marocco (111,2 k ) e Sudan (95,3 k).

In sostanza, la realtà è ben diversa dalla narrazione che l’intesa avrebbe aiutato soprattutto l’Africa. Ciò non svilisce il valore complessivo dell’accordo raggiunto all’incirca un anno fa grazie alla mediazione del presidente turco Erdogan e dello stesso Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres: la ripresa delle esportazioni del grano nel Mar Nero ha evitato la lievitazione del costo dei cereali sui mercati internazionali e i connessi effetti distorsivi sull’aumento di assicurazioni e noli che tanto incidono sul traffico mercantile.

Uno scenario diverso: la Russia in sovreccedenza

C’è però un altro aspetto da considerare: la conclamata sovreccedenza della produzione di cereali russi, posta in evidenza dalla stessa agenzia di stampa russa TASS, e da agenzie specializzate come Jacob & Partners, World Grain e Bneintellinews, oltre che dal Dipartimento di Stato Usa. Putin stesso a marzo aveva annunciato il record di tutti i tempi di 153-155 milioni di tonnellate di grano prodotti nello scorso anno, mentre le indicazioni del 16 giugno del vice primo ministro Victoria Abramchenko hanno confermato il trend positivo per 130 milioni di tonnellate per quest’anno.

Sta di fatto che la sovrapproduzione ha comportato un’eccedenza che non ha trovato sbocchi, con inevitabili problemi di mancanza di spazi per lo stoccaggio e di trasporto. La questione all’interno della Russia sta pure assumendo un profilo di rischio per l’inflazione e le lagnanze che dalle assemblee locali affluiscono al centro: i coltivatori di grano russi hanno già perso circa 1 trilione di rubli (15 miliardi di dollari) a causa dei dazi all’esportazione ma le perdite subite sul mercato interno sarebbero anche più elevate. Insomma l’idea di Putin e della sua nomenklatura è che in qualche modo se si blocca il grano ucraino la Russia potrà esportare i sui cereali in eccedenza, che altrimenti finirebbero per marcire.

Il disegno quindi si coniuga bene con le altre due esigenze strategiche: la prima, concerne l’intento, di cui si è detto, di accaparrarsi la riconoscenza del “Sud globale”, la seconda concerne ora la necessità attualissima di recuperare il controllo dell’ingerenza e dei condizionamenti sui governi africani finora assicurati dal gruppo Wagner, appena ribellatosi e di cui è ancora molto incerta la fidelizzazione al leader supremo. Su questi profili va pura collocata la ben evidente aspirazione di Putin di riavvicinare l’area ultranazionalista, che come documenta il sito Tsargrad-Il Primato Russo da tempo richiede una postura più ferma e decisa nell’escalation della guerra.

Vanno dunque valutate con molte riserve le dichiarazioni ufficiali della Russia sulla parte che non sarebbe applicata dall’accordo con riguardo alle sue esportazioni per effetto delle sanzioni. In realtà, possono considerarsi effetti indiretti ma solo limitati, perché in generale il sistema delle sanzioni dell’Occidente contro la Russia non ha riguardato le esportazioni di prodotti alimentari. Peraltro anche in ambito Onu si stavano perfezionando soluzioni tecniche che avrebbero facilitato le esportazioni russe e rivisto la richiesta russa di reinserire la banca agricola Rosselkhozbank nel circuito finanziario Swift.

La realpolitik sul Mar Nero

La scelta della Russia di ritirarsi dall’accordo è destinata ad avere non poche conseguenze, e certamente ora sta incidendo la pressione dei suoi bombardamenti, a cominciare dal porto di Odessa. Alcuni principi del diritto internazionale andrebbero perciò efficacemente riaffermati, soprattutto dalle Nazioni Unite. Il “blocco dei porti o delle coste di uno Stato”, con la conseguente limitazione della libertà di navigazione, non è che una declinazione di un atto di «aggressione», divenuto illegittimo a seguito della Risoluzione dell’Assemblea Generale della Nazioni Unite 3314 del 14 dicembre 1974, e ora sanzionabile anche ai sensi dello Statuto della Corte penale internazionale (art.8-bis).

Inoltre, l’art. 54.1 del primo Protocollo di Ginevra del 1977  pone un esplicito divieto di affamare la popolazione civile, e in parallelo all’articolo 8. Crimini di guerra dello Statuto della Corte penale internazionale si incrimina la condotta di “affamare intenzionalmente, come metodo di guerra, i civili privandoli dei beni indispensabili alla loro sopravvivenza”. Si tratta di una fattispecie per cui ong dipendenti hanno già investito la Corte ponendo in relazione il blocco delle esportazioni alimentari con le distruzioni dei campi agricoli, delle dighe e le altre modalità criminali di condotta della guerra che hanno coinvolto la popolazione civile.

Un ruolo per l’Assemblea Generale

Sulla base di questi principi e regole universali, ora occorrerà vedere quali intendimenti si stanno proponendo i Paesi africani che parteciperanno al vertice di San Pietroburgo. È auspicabile che non si facciano attrarre dalle narrazioni anti-coloniali e rivendichino il diritto delle loro popolazioni ad essere alimentate anche dal grano ucraino ed europeo, e a far cessare la guerra. Se così non fosse sarà bene perciò che la Russia sia chiamata a confrontarsi in un dibattito aperto anche in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E dunque, al di là delle condanne che sono giunte puntuali, è ora necessario che Nazioni Unite e Unione Europea sappiano far convergere le posizioni della Turchia, ma anche della Cina e dei paesi del “Sud globale” per ripensare ad un Mar Nero in cui si ripristino i “corridoi umanitari”.

Foto di copertina EPA/RUSSIAN FOREIGN MINISTRY PRESS SERVICE HANDOUT

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