I 25 anni dello Statuto di Roma

Il 17 luglio 1998 a Roma, la Conferenza diplomatica che nella sede della Fao riunisce i rappresentanti di 160 Stati approva lo Statuto della Corte penale internazionale (Cpi), con 120 voti a favore su 148 Stati votanti. Entrato in vigore il 1° luglio 2002 al raggiungimento delle ratifiche necessarie (l’Italia vi aveva provveduto con la Legge 12 luglio 1999 n. 232  G.U.del 19 luglio 1999 n. 167, S.O. ), lo Statuto di Roma ha raccolto l’eredità di un percorso che va dalle prime Convenzioni dell’Aja, di Ginevra e dal Trattato di Versailles del 1919 per giungere allo “spirito di Norimberga” e ai Tribunali ad hoc, per la ex Jugoslavia e il Ruanda. Si presenta oggi come la base giuridica più compiuta che definisce i crimini di genocidio (art.6), i crimini contro l’umanità (art.7), i crimini guerra (art. 8). Dopo la Conferenza di Kampala del 2010, la Corte ha esteso la competenza anche sull’aggressione (art.8-bis), ovvero l’attacco illegittimo contro la sovranità degli Stati, in violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite.

La Corte nella sua configurazione di tribunale a carattere permanente e dall’efficacia universale interviene sulla base del principio di complementarietà, ovvero qualora gli Stati “non vogliano o non possano” giudicare i colpevoli, per unwillingness, ‘difetto di volontà’ o per inability, ‘incapacità dello Stato’. Non operano prescrizioni, né immunità funzionali o personali, ma sono previsti diversi caveat per il Prosecutor. In particolare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può disporre il deferral, il differimento del procedimento, e per il crimine di aggressione le condizioni di procedibilità sono ancora più stringenti se non vi è una determinazione del Consiglio di Sicurezza.

Il percorso per l’affermazione

Un sistema così radicalmente innovativo non poteva presentarsi senza difficoltà. Tra le 123 Nazioni che hanno aderito al sistema della Corte non figurano la Russia – che pure aveva sostenuto e approvato lo Statuto – la Cina, ma anche Paesi democratici come Israele e soprattutto gli Stati Uniti. Quando si è tentato di avviare indagini nei teatri afghani e palestinesi, nei confronti della ex procuratrice Bensouda i leader americani e israeliani hanno lanciato l’accusa di essere una enemy of the State e di antisemitismo, e il presidente Trump ha emesso nei suoi confronti un executive order di congelamento dei beni, poi revocato da Biden.

Inoltre, si è sempre discusso se la scelta di ricorrere alla giustizia internazionale potesse contrastare i percorsi per la pace, specie in una guerra in corso. Ma il conflitto in Ucraina ha mutato la prospettiva. Le distanze tra gli attori sull’avvio di negoziati e la brutalità della condotta della guerra hanno indotto gli Stati a difendere un popolo non solo con l’aiuto armato ma anche con gli altri strumenti che portano all’isolamento internazionale: dalle Risoluzioni di condanna dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fino alle sanzioni economiche e ai processi della giustizia penale internazionale.

Il mandato d’arresto per Putin

La svolta si è avuta con la scelta compiuta da un gruppo di 40 Stati – con in testa la Lituania, l’Italia e tutti gli altri paesi dell’Unione europea – che ha voluto dare forza e legittimazione al procuratore della Corte: ai sensi dell’ articolo 14 dello Statuto, hanno promosso il referral, la richiesta di indagare nel conflitto in Ucraina su ogni atto che integri non solo crimini di guerra, ma anche crimini contro l’umanità e il genocidio. Il 17 marzo 2023 su richiesta del Prosecutor, la Camera preliminare ha emesso nei confronti del presidente Putin e della Commissaria per i diritti dei minori Maria Lvova-Belova i primi mandati d’arresto con l’accusa di deportazione e trasferimento illegale di minori ucraini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Federazione russa, in violazione dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), punto vii), e dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera b), punto viii), dello Statuto di Roma.

Le polemiche sulla difficoltà di dare esecuzione al mandato d’arresto senza un regime change erano attese, ma intanto è un dato di fatto che anche nella percezione dei controllati media russi il provvedimento della Corte segna un aggravamento dell’isolamento internazionale di Putin. Una condizione destinata ad incidere non poco, posto che la rivolta di Prigozhin ha confermato che la stessa nomenklatura non è più monolitica attorno al suo leader.

Non dimenticare il crimine di “aggressione”

È rimasto il problema del crimine di aggressione, il “crimine dei crimini” che si è delineato a monte dell’invasione russa. A rigore non è possibile perseguire Putin e la sua nomenclatura per l’aggressione, perché la Russia non ha ratificato lo Statuto della Corte, come peraltro gli Stati Uniti e la stessa Ucraina, che pure ha aderito al sistema della Corte per gli altri crimini internazionali con una procedura di accettazione ad hoc. Né ci si può aspettare una determinazione nel senso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove siede la Russia con diritto di veto.

Zelensky ha promosso l’idea di costituire un Tribunale speciale per l’Ucraina, che è stata rilanciata dalla Presidente della Commissione europea von der Leyen e poi formalizzata in occasione del 24º vertice UE-Ucraina del 2 febbraio 2023. La Commissione ipotizza due modelli: un tribunale internazionale basato su un trattato multilaterale, o un tribunale ibrido, cioè un organismo giudiziario nazionale integrato con giudici internazionali. Il parlamento di Kyiv a breve potrebbe ratificare integralmente lo Statuto della Corte e si potrebbe sostenere una risoluzione dell’Assemblea degli Stati parte e un accordo tra Unione europea, vari Stati garanti e l’Ucraina che coinvolga la stessa Corte penale internazionale, che perciò non è esclusa o superata dal processo.

Intanto il 3 luglio scorso si è costituito il Centro internazionale per il perseguimento del crimine di aggressione contro l’Ucraina (ICPA), all’Aja, nella sede di Eurojust, l’Agenzia dell’Unione Europea per la cooperazione penale, da cui il Centro ha diretto sostegno. La struttura si poggia sulla rete che ha già assicurato la raccolta delle prove sui crimini internazionali dalle fasi iniziali della guerra, costituita da esperti di varie organizzazioni internazionali e delle procure nazionali che hanno cooperato con quella ucraina, e soprattutto con il prosecutor della Corte penale internazionale. Anche gli Stati Uniti hanno sottoscritto un memorandum d’intesa con l’ICPA designando un procuratore speciale per l’aggressione all’Ucraina.

Ritrovare lo “spirito” dello Statuto di Roma

L’Italia può ancora promuovere qualcosa di concreto: il varo del Codice dei crimini internazionali da tempo in gestazione tra governo e parlamento, e la riapertura alla firma dello Statuto per estenderne l’adesione. La catastrofe umanitaria che si è andata compiuta in Ucraina dovrebbe orientare gli Stati Uniti a ritornare sui loro passi per aderire pienamente al sistema della Corte, e ciò comporterebbe davvero l’affermazione universale dei principi della giustizia penale internazionale, rendendo compiuto e indelebile lo sdegno delle democrazie contro le atrocità della guerra.

L’Italia potrebbe farsi carico anche di una proposta di revisione dello Statuto: nel caso di una Risoluzione adottata a maggioranza dall’ Assemblea dell’Onu o a seguito di un referall presentato da almeno 40 Stati dovrebbe consentirsi al Prosecutor di procedere direttamente pure per l’aggressione, ed anche nei confronti degli Stati che non hanno ratificato lo Statuto. Significherebbe dare un senso compiuto agli anniversari e far rivivere lo “spirito” dello Statuto di Roma.

Foto di copertina EPA/Phil Nijhuis

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