La distrazione su Hamas nasconde il pericolo di un conflitto regionale

C’è una parola ripetuta più volte nelle cronache di guerra di questi giorni in Israele. Sorpresa. Sorpresa per la rapidità dell’attacco di Hamas. Sorpresa per la massiccia offensiva militare dei terroristi palestinesi, per la loro penetrazione nei territori di Israele, per le avanzate tecniche militari utilizzate, per la cattura in qualità di ostaggi di decine di giovani civili e militari israeliani. Niente a che vedere con le due Intifada degli anni passati che avevano visto sollevazioni palestinesi iniziate a colpi di pietra contro i militari israeliani. Ma anche sorpresa per l’inefficienza dell’invincibile Tsahal, l’esercito di Tel Aviv, e per i buchi nell’intelligence ormai affidata agli strumenti dell’Intelligenza Artificiale e della superiorità tecnologica di Gerusalemme piuttosto che alle fonti umane sul territorio.

Ma davvero è stata una sorpresa? Forse la parola più appropriata è distrazione. Distrazione dai segnali di aumento della violenza con 200 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno e oltre 30 israeliani che hanno subito analoga sorte per ritorsione. Uno stato di conflitto di basso livello, ma un segnale che non doveva essere sottostimato. Distrazione di fronte alla inutile e dannosa provocazione della visita del nuovo ministro degli interni israeliano alla spianata della Moschea di Al Aqsa sacra ai musulmani (tanto che Hamas ha significativamente chiamato “operazione Al Aqsa” l’attuale guerra).

La distrazione su Hamas

Distrazione esistenziale, infine, sull’irrisolto problema dei palestinesi dopo decenni di tentativi di soluzione pacifica, da Oslo ai tempi di Arafat e Begin (due premi Nobel per la pace) fino ad una decina d’anni fa quando sono stati esperiti gli ultimi tentativi di compromesso. Ne è seguita una specie di rimozione della questione palestinese, come se fosse di fatto congelata e priva di veri rischi, da gestire come un normale problema di sicurezza. In realtà un vero e proprio inferno stava sviluppandosi all’interno di Gaza.

In effetti l’ennesimo governo (quello più a destra nella breve storia israeliana) di Benjamin Netanyahu si è focalizzato su tre elementi. Il primo è stato quello di vegliare soprattutto sulla sicurezza ad Est, nella Cisgiordania, a proteggere gli insediamenti dei coloni israeliani, aiutato in ciò dall’accordo con il vecchio e screditato Abu Mazen capo di Fatah, l’Autorità palestinese di un tempo. Il secondo di mettere mano alla riforma del sistema giudiziario interno spaccando il paese in due (perfino con l’opposizione delle forze armate). Il terzo quello di riavvicinare Israele all’Arabia Saudita per completare gli accordi di Abramo del 2020 fortemente sponsorizzati dagli Stati Uniti dell’allora presidente Donald Trump.

Netanyahu non si è accorto che nella piccola striscia di Gaza stava crescendo la voglia di rivincita da parte di Hamas. Come è noto Hamas è un gruppo militante islamico-sunnita considerato da Usa e Ue come un vero e proprio gruppo terroristico, al pari dell’Isis e di Al Qaeda. L’obiettivo dichiarato di Hamas è di distruggere Israele (analogamente all’Iran da cui è sostenuto militarmente). Per ottenerlo si muove in tre direzioni: destabilizzare Israele, legittimarsi come unico rappresentante dei palestinesi, bloccare sul nascere l’accordo Israele-Arabia Saudita. Per farlo, in aggiunta alle operazioni militari utilizza i metodi tipici del terrorismo mediorientale: cattura di ostaggi, uccisione indiscriminata di civili, utilizzo di social e video per dimostrare la loro efferatezza. Hamas è riuscito dal 2007 in poi ad impadronirsi del governo di Gaza e a scalzare il debole e corrotto Abu Mazen di Fatah che si è di fatto ritirato nella Cisgiordana.

Gaza: che fare?

Purtroppo in tutti questi anni la popolazione palestinese di Gaza non ha tratto alcun vantaggio dalla crescente potenza di Hamas. La disoccupazione è al 62% la più alta del mondo e i civili vivono essenzialmente degli aiuti internazionali per cibo, medicine e beni di prima necessità. Per di più i palestinesi vivono in uno stato di quasi-assedio da terra e da mare a causa dello strettissimo controllo israeliano. Nella popolazione ne è quindi nato uno stato di disperazione e di dipendenza dai voleri di Hamas che può in parte spiegare la sopportazione popolare di un regime totalitario ed estremista come quello rappresentato dai terroristi.

Che fare quindi? Per l’Ue si tratta della seconda guerra alle proprie porte e i successi e la propaganda di Hamas possono trovare adepti fra le minoranze islamiche in Europa riportandoci ai tempi bui degli attentati del Bataclan a Parigi o a quelli di Nizza. Perfino alcune forze politiche possono esserne contagiate, come France Insoumise di Mélenchon si è spinta fino a sostenere le ragioni di Hamas. Noi europei dobbiamo invece condannare senza incertezza il metodo terrorista di questi gruppi di fanatici. Come ci siamo uniti assieme all’America per battere le atrocità di Al Qaeda e dell’Isis, allo stesso modo dobbiamo aiutare Israele a battere il terrorismo suicida di Hamas. Suicida perché la forza militare e politica di Israele non lascerà scampo neppure a questa ennesima provocazione. Tuttavia la guerra contro Hamas e contro il terrorismo non deve trasformarsi nella guerra contro i palestinesi.

Non sarà davvero semplice, ma la madre di tutti i problemi in Medio Oriente deve trovare uno sbocco negoziale per non continuare a costituire un elemento di pericolosa instabilità per quella regione e per il mondo intero. Vi sono oggi davvero tutte le premesse di una terza guerra mondiale “a pezzi”, come ci viene spesso ricordato da Papa Francesco ed è anche nostra responsabilità farvi fronte con equilibrio e determinazione.

Foto di copertina EPA/MOHAMMED SABER

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