Il vertice NATO del 3,5% del PIL nella difesa e della pax euro-atlantica

Il vertice dei capi di stato e di governo NATO all’Aia, il primo con Donald Trump rieletto alla Casa Bianca, si può considerare un relativo successo per l’Alleanza, e soprattutto per l’Europa, se lo si misura con l’obiettivo fondamentale di mantenere la pace nella regione euro-atlantica. Gli alleati hanno infatti concordato un’agenda di priorità estremamente ristretta su cui era possibile ottenere un consenso unanime, e hanno definito dei livelli di spesa equilibrati al fine di dissuadere e contenere la minaccia russa, mantenere gli Stati Uniti impegnati nella difesa collettiva dell’Europa, e risultare fattibili in 10 anni per i bilanci pubblici dei Paesi membri – anche se non facili per Italia e Spagna.

In particolare l’impegno preso a investire il 3,5% del PIL nella difesa vera, e quello separato di conteggiare in un nuovo, ampio e poco definito paniere un altro 1,5% del PIL sostanzialmente già oggi investito dalla grande maggioranza dei Paesi europei in infrastrutture critiche e resilienza civile, servono a continuare a mantenere pace, sicurezza e stabilità nella regione euro-atlantica in un quadro strategico segnato da più di tre anni di invasione russa dell’Ucraina. La distinzione tra le due categorie è molto importante, perché ad esempio per l’Italia ciò vuol dire che l’attuale bilancio integrato della difesa, come definito nell’ultimo Documento Programmatico Pluriennale della Difesa disponibile del 2024, dovrà crescere in dieci anni fino al 3,5% del PIL e non fino al 5% come erroneamente riportato da alcuni media italiani.

Se la pace in Occidente vale un post sui social…

Storicamente la NATO ha svolto la duplice funzione strategica di “peace in the West” e “peace of the West”. La prima consiste nel legare Paesi che altrimenti si erano fatti e si potrebbero fare la guerra: non solo coloro che si sono combattuti nelle due Guerre Mondiali, ma Grecia e Turchia perennemente in tensione, o gli stati membri usciti dalle sanguinose guerre civili dell’ex Jugoslavia negli anni ‘90. La pace in Occidente funziona se gli Stati Uniti mantengono una modica presenza militare, sia nucleare che convenzionale, in Europa, che evita il circolo vizioso di ri-nazionalizazione sovranista delle politiche di difesa dei singoli stati, di frammentazione in accordi bilaterali, trilaterali o regionali, di sfiducia reciproca e perfino di riapertura del dibattito su un nucleare militare nazionale. Se per evitare tutto questo, che l’Europa ha vissuto tragicamente – al netto del nucleare – per secoli fino a metà del ‘900, oggi serve un messaggio privato del Segretario Generale NATO al presidente statunitense eccessivamente lusinghiero e ossequioso, come quello di Mark Rutte pubblicato da Donald Trump sui social media, tutto sommato questo è un prezzo politico accettabile da pagare.

…evitare un attacco russo vale il 3,5% del PIL nella difesa

La seconda funzione strategica della NATO è quella di “peace of the West”, ovvero di deterrenza e difesa collettiva contro la minaccia proveniente da Mosca. Dal 1991 al 2014 questa funzione è rimasta in stand-by, metaforicamente come una polizza di assicurazione rispetto al ritorno della secolare aggressività russa verso il suo vicinato occidentale, ma dal 2022 è tornata il core business e la priorità assoluta per la NATO. Un regime russo ancora solido dopo oltre tre anni di guerra di invasione contro uno stato europeo confinante, nonostante oltre mezzo milione di soldati morti o feriti, che nel 2025 intende portare la percentuale di PIL destinato alle forze armate dal 6% al 9% e arrivare a 1,5 milione di militari in servizio, e che continua a bombardare l’Ucraina invece di negoziare, è una minaccia diretta, grave e duratura per l’Europa.

In questo quadro strategico, Trump ha firmato il comunicato del vertice NATO che riconosce, testualmente, “la minaccia di lungo periodo posta dalla Russia alla sicurezza euro-atlantica”, e lo stesso documento riafferma l’impegno “ferreo” nella difesa collettiva sancito dall’articolo 5 del Trattato di Washington, senza sfumature o interpretazioni o incertezze. Difesa collettiva che si fonda su livelli di spese militari congrui, la priorità numero uno dell’amministrazione Trump.

Durante la Guerra Fredda i Paesi europei allora membri della NATO spendevano circa il 3% del PIL nella difesa, percentuale poi più che dimezzata, in media, negli anni ’90-2000 perché era scomparsa la minaccia del Patto di Varsavia. L’obiettivo del 2% del PIL nella difesa, fissato nel 2014, a oggi è stato mediamente raggiunto dall’Europa, e la nuova soglia del 3,5% entro il 2035 svolge la duplice funzione di dissuadere un attacco russo – e nello scenario peggiore di respingerlo – e di mantenere una certa presenza militare americana in Europa. La spesa pubblica europea così programmata in questo settore è enormemente inferiore ai danni che porterebbe nei Paesi UE e NATO una guerra su larga scala come quella che va avanti dal 2022 in Ucraina, scenario non escludibile a priori se la deterrenza fallisse. E questa spesa prevista è molto inferiore a quanto dovrebbe investire l’Europa per difendersi completamente da sola se gli Stati Uniti si disimpegnassero tout court dalla NATO perché gli alleati europei non vanno verso il 3,5% promesso al Aia. Le circa 100.000 truppe americane ad oggi presenti in Europa, e soprattutto gli assetti militari statunitensi, possono e devono essere in parte sostituiti da risorse europee con questi livelli previsti di spesa, mantenendo così la difesa collettiva, ma sarebbe molto più difficile e costoso rimpiazzarli totalmente – basti solo pensare ad un deterrente atomico in grado di dissuadere la ricorrente minaccia nucleare russa.

Ucraina fuori dalla NATO ma aiutata dai Paesi NATO

Per difendere la “peace of the West” dalla minaccia russa, il vertice dell’Aia ha fatto chiarezza su quali sono i confini della NATO soggetti alla difesa collettiva, escludendo esplicitamente l’Ucraina. La prospettiva di un ingresso nell’Alleanza, richiesto da Kyiv nel 2022 dopo l’inizio dell’invasione russa, era stata sostanzialmente abbandonata già nel vertice di Vilnius del 2023, quando l’amministrazione Biden aveva rifiutato di fissare i tempi per l’ingresso rinviando tutto sine die – con la soddisfazione non solo dell’Ungheria ma, in modo più silente, di diversi altri governi in Europa. La stessa presidenza Biden e tutta la NATO avevano però mantenuto una narrazione sempre più staccata dalla realtà, su un futuro percorso di Kyiv verso l’adesione definito dal successivo summit di Washington nel 2024 come “irreversibile”.

L’amministrazione Trump ha subito fatto chiarezza al riguardo in poche settimane, già lo scorso gennaio, e nel comunicato del vertice dell’Aia non si nomina in nessun modo l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Non a caso, Zelenski è stato ospite come rappresentante di un Paese partner alla cena ufficiale, ma non ha partecipato ai lavori dei capi di stato e di governo degli stati membri.

Lo stesso comunicato afferma però che il costo degli aiuti militari donati dai Paesi NATO all’Ucraina va conteggiato nell’obiettivo del 3,5% del PIL destinato alla difesa, e questo è un incentivo per l’Europa e il Canada a continuare concretamente ad aiutare Kyiv. Si tratta di una scelta pragmatica e logica, basata sulla ratio che invitare l’Ucraina nella NATO non è una strada percorribile per aiutarla a difendersi dalla Russia, e bisogna seguirne altre. Una lezione anche per l’UE, che nel 2022 aveva invece incautamente aperto la procedura di adesione dell’Ucraina all’Unione, destinata a finire in un vicolo cieco.

Una NATO regionale e monotematica, sostenibile e (più) europea

La NATO uscita dal vertice dell’Aia, e che molto probabilmente andrà avanti così per i quattro anni dell’amministrazione Trump, si può riassumere in 4 aggettivi: regionale, monotematica, sostenibile, e (più) europea. Regionale in quanto concentrata sul territorio degli stati membri, dalla Turchia al Canada, con un focus univoco sul suo fianco est, dalla Scandinavia al Mar Nero passando per l’Europa orientale. Il comunicato dell’Aia non dice nulla sul fianco sud, il Nord Africa o il Medio Oriente, e nemmeno sull’Indo-Pacifico. Ma mentre quest’ultimo è in qualche modo ancora nel radar dell’Alleanza, sebbene sottotraccia e in modi da definire, tanto che il ministro della difesa australiano era presente all’Aia, gli stati del “Mediterraneo allargato” che non sono membri della NATO sono completamente fuori dall’agenda alleata concordata nel summit.

La NATO durante l’amministrazione Trump è e sarà anche sostanzialmente monotematica, in quanto dal comunicato del vertice breve quanto una pagina e con solo cinque punti, rispetto a una media di decine di pagine e centinaia di punti dei precedenti summit, sono state eliminate parole chiave che hanno accompagnato gli scorsi anni della NATO quali: partnership; cooperazione con l’UE; cambiamento climatico; minacce ibride; criminalità organizzata; traffici illeciti; e, elemento più recente, Cina. La NATO non si occupa più in maniera significativa di tutto ciò.

Certo restano nel comunicato i tre core tasks, i compiti chiave, del Concetto Strategico 2022, dove sicurezza cooperativa e prevenzione e gestione delle crisi sono secondari e strumentali rispetto all’obiettivo primario di deterrenza e difesa collettiva. La NATO continuerà a svolgere missioni importanti per la sicurezza europea in senso ampio, come quella che in Kosovo mantiene la pace tra le etnie serba e kosovara, Sea Guardian che pattuglia il Mediterraneo e la missione di addestramento delle forze irachene in chiave anti-estremismo islamico. Quanto a sicurezza cooperativa, resta per la NATO il tema di una cooperazione con l’UE che porterebbe benefici a entrambi, ma che durante l’amministrazione Trump è più utile non mettere in cima all’agenda del presidente americano. E continueranno a esistere i partenariati con i Paesi non-NATO, tra i quali però vi saranno fortissime differenze: quello con l’Ucraina è la priorità per l’Europa; quelli con i Balcani occidentali svolgono una importante funzione regionale di stabilità; i partner dell’Indo-Pacifico sono interlocutori rilevanti in termini politici, militari ed economici – specie Australia, Corea del Sud e Giappone. All’estremo opposto, i partenariati con gli stati del Nord Africa e Medio Oriente, compresi Mediterranean Dialogue e Istanbul Cooperation Initiative, rimarranno nello stato di stallo e abbandono in cui si trovano dal 2022. La NATO che esce dall’Aia non intende attrezzarsi per parlare con il sud del mondo, perché non è il compito che gli hanno dato i Paesi membri.

La scelta di una NATO regionale e monotematica serve sostanzialmente a limitare il confronto con Washington esclusivamente ai temi su cui si può trovare un accordo, in modo da raggiungerlo e mantenerlo, lasciando fuori ciò che è al tempo stesso divisivo e non essenziale per l’Alleanza atlantica e le sue funzioni strategiche di “peace of the West” e “peace in the West”. D’altronde che senso avrebbe discutere una strategia NATO per il Medio Oriente quando Trump cambia la sua ogni mese, Ankara considera Tel Aviv una minaccia, e i Paesi europei faticano persino a decidere in un perimetro molto più omogeneo come l’UE se rivedere o no l’accordo di associazione con Israele?

Un’Alleanza regionale e monotematica, in cui i Paesi europei si muovono verso il 3,5% del PIL nella difesa e gradualmente rimpiazzano alcune delle forze americane – ma non tutte – è molto più sostenibile nel breve, medio e lungo periodo. Non solo nei quattro anni di amministrazione Trump, ma nel futuro che vedrà gli Stati Uniti limitare comunque il proprio sostegno militare all’Europa al minimo indispensabile, dando la priorità alla sfida posta dalla Cina, all’Indo-Pacifico e a legittime istanze domestiche isolazioniste.

Una NATO più sostenibile è di fatto una NATO più europea di quanto lo sia mai stata, in termini di investimenti, risorse umane, assetti e comandi, oneri e rischi. Già dal 2022, degli otto battaglioni multinazionali dispiegati sul fianco orientale solo uno è a guida americana, in Polonia, e già nell’attuale pianificazione NATO la gran parte delle 200.000 truppe che gli alleati si preparano e si impegnano a inviare entro 30 giorni sul fianco orientale in caso di escalation da parte russa non sono statunitensi.

Una NATO più europea è il leit motiv dalla Finlandia alla Germania, ed è sostanzialmente quello che da anni sostiene saggiamente l’Italia, compreso il governo Meloni, quando punta a un “pilastro europeo” più forte, solido e coeso, rispetto a una difesa UE che non è decollata neanche dopo oltre tre anni di guerra in Ucraina e cinque mesi di amministrazione Trump. Sulle basi poste dal vertice dell’Aia, occorre fare un ulteriore passo in avanti e puntare a una “NATO a trazione europea” come soluzione più sostenibile per la deterrenza e difesa dell’Europa di fronte alla minaccia russa.

In conclusione, il summit in Olanda ha dato un contributo alla pace, stabilità e sicurezza dei membri NATO, il che non era affatto scontato nei mesi scorsi. La cosiddetta “Pax Americana” è in crisi a livello mondiale, ma una “Pax euro-atlantica” può e deve emergere a livello regionale e l’Alleanza uscita dall’Aia va giustamente in quella direzione.

Responsabile del Programma "Difesa, sicurezza e spazio" dell’Istituto Affari Internazionali. Dal 2018 è anche docente presso l’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze (ISSMI) del Ministero della Difesa italiano. E' stato mentor presso il NATO Defense College, e dal 2016 è membro del comitato scientifico del Armament Industry European Research Group (Ares Group).

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