Mai nella sua ormai lunga storia l’Ue ha vissuto un così drammatico periodo di incertezza. Schiacciata fra Trump e Putin, Bruxelles e i suoi principali partner sembrano muoversi a sussulti in un mondo ormai radicalmente diverso dopo l’emergere prepotente del “fattore T”. Molte le buone intenzioni e le iniziative sul tappeto, ma senza una vera e propria strategia comune per imparare a navigare in questi procellosi scenari.
Come al solito arrivare a una decisione comune è estremamente difficile, come dimostrano gli scontati rinvii dell’ultimo Consiglio europeo del 20 marzo e perfino le ripetute riunioni dei cosiddetti “volonterosi” indette a Londra o Parigi per definire i contorni di una “forza di garanzia o di rassicurazione” in caso di cessate il fuoco in Ucraina.
Di fronte a questa profondissima crisi riemergono in tutta la loro evidenza i limiti politici e istituzionali dell’Ue. Si ripete spesso che il processo di integrazione è destinato ad approfondirsi sotto la pressione delle crisi esterne, ma fino ad oggi non si è visto nulla di simile, anche se nei fatti alcuni adattamenti cominciano ad emergere.
La prima grande novità riguarda il ruolo della Commissione europea che, come nella passata crisi del Covid o della successiva depressione economica, ha preso anche oggi un’iniziativa coraggiosa su materie apparentemente lontane dalle sue competenze: il piano originario di “ReArm Europe” ampliato poi in un più convincente “Joint White Paper for European Defence Readiness 2030”. In mancanza di altri attori istituzionali capaci di prendere con una certa rapidità decisioni cruciali per il futuro dell’Unione, ecco che ancora una volta è la Commissione europea ad assumersi la responsabilità di dare la linea agli altri organismi dell’Ue e soprattutto al Consiglio europeo e ai 27 suoi paesi membri. Che poi l’iniziativa di Ursula von der Leyen abbia sollevato le proteste e i dubbi dei paesi e delle forze politiche sovraniste (comprese quelle italiane) era da mettere nel conto delle tipiche reazioni anti-comunitarie presenti un po’ dovunque. L’importante tuttavia è che qualcuno si sia preso la responsabilità di lanciare l’allarme e di obbligare a dare risposte concrete in un campo, quello della difesa comune, che attende ancora dal 1954 (fallimento della CED) di essere affrontato.
In fondo l’Ue in tutti questi decenni è stata ciò che si definisce una “potenza civile” in un mondo dove gli sviluppi dell’economia erano al primo posto negli interessi globali. Ma oggi la musica è radicalmente cambiata e in un mondo marcatamente multipolare e nel quale lo strumento della guerra sembra essere tornato utilizzabile nelle contese internazionali l’essere “potenza civile” non è più sufficiente. Altiero Spinelli già decenni fa parlava di Europa come “terza potenza” per significare la necessità di completare il processo di integrazione economica anche con la dimensione di difesa. Oggi tale esigenza rimane valida anche se essa si sostanzia essenzialmente nella necessità di interloquire da pari con gli altri attori multipolari a cominciare dalla Russia, ma anche e soprattutto dagli Stati Uniti vista la loro drammatica trasformazione da alleati indispensabili per quasi 80 anni a concorrenti feroci nei prossimi.
Sfide e prospettive per l’Europa nella difesa e nei negoziati internazionali
Certo non basta Ursula von der Leyen né la sua determinazione ad incamminarsi sulla via, soprattutto industriale, di una difesa comune e di uno sviluppo tecnologico accelerato per aprire il confronto con le altre potenze globali. Lo può fare nel campo degli accordi commerciali e della difesa dai dazi di Trump ove la Commissione ha competenze esclusive. In effetti, gli accordi con il Mercosur o i negoziati con il Messico e forse in futuro con l’India possono costituire la giusta risposta alle follie tariffarie di Trump. Ma sul piano dei negoziati di sicurezza o di pace la voce della Commissione non può che essere debole. Nessun invito alla Presidente della Commissione a sedersi a qualsivoglia tavolo con Usa, Russia e Ucraina. Cosa che a maggior ragione vale per la nuova Alto Rappresentante, Kaya Kallas, che ha dovuto soffrire la cancellazione all’ultimo minuto dell’incontro con la controparte americana Carlo Rubio o che ha visto respinta dal Consiglio europeo la sua proposta di un aiuto di 40 miliardi di Euro all’Ucraina, poi ridotta a 5 miliardi (ma senza conseguente decisione). Né migliori sono le performance internazionali del nuovo presidente del Consiglio europeo Antònio Costa il cui organismo di riferimento è scarsamente adatto a prendere con rapidità e consenso decisioni vitali per l’Ue.
Se questo è lo stato penoso del decision-making comunitario di fronte alle nuove responsabilità di sicurezza e difesa, la reazione di alcuni stati membri, ed è questo l’altro motivo di novità, è stata quella di fare rinascere il vecchio concetto di “willing and able”.
Sviluppato intorno alla seconda metà degli anni ’80 per attrezzare la Nato a operazioni fuori dalla sua area di competenza è stato poi largamente applicato dopo il 2001 con le iniziative di ritorsione americana all’attacco alle due Torri. Sia in Afghanistan che in Iraq sono infatti nate le cosiddette “coalition of the willing” che hanno permesso la partecipazione volontaria di paesi alleati degli Usa per combattere in Medioriente. Oggi sia Macron che Starmer hanno preso in mano le redini dei cosiddetti gruppi di volonterosi per attrezzare in questo caso l’Ue a mantenere le proprie responsabilità in sostegno dell’Ucraina, prevedendo anche la costituzione di una forza di garanzia in caso di pace fra Mosca e Kyiv.
In realtà queste iniziative, soprattutto da parte francese e degli altri membri dell’Ue che hanno deciso di farne parte, indicano la possibile strada anche istituzionale per uscire dal deficit decisionale dell’Ue. La nascita cioè di un gruppo di avanguardia che decida di procedere autonomamente verso un’integrazione di livello superiore, magari con un nuovo accordo/trattato che lasci inalterato l’assetto del resto dell’Ue, ma che nel gruppo di testa ponga rimedio alla paralisi istituzionale e di rappresentanza di un’Europa “potenza”. Sarà questa l’evoluzione futura? Sarebbe certamente auspicabile, ma viste le resistenze passate rimane poco probabile. A meno che la crisi attuale non finisca per imporsi.
Esperto di questioni europee e di politica estera, è Presidente del Comitato dei Garanti e Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali. È pubblicista e editorialista per Vita trentina (dal 2019) e Corriere del Trentino – Gruppo Cds (dal 2020).