Lost in transition? La giustizia sociale e ambientale delle politiche green europee

Le sfida delle politiche di decarbonizzazione e della neutralità climatica intraprese dall’Unione Europea sotto le direttive del Green Deal (il pacchetto di proposte legislative fit for 55), oltre a considerazioni di carattere geopolitico, richiedono una riflessione sul futuro delle questioni sociale e ambientale. Le priorità delle politiche verdi dell’Unione di diversificazione dal gas russo e, più recentemente, di de-risking dalla Cina, hanno portato la Commissione a elaborare una strategia economica per proteggere gli interessi dell’Ue contro la militarizzazione (weaponization) dei legami economici. In concomitanza, è necessario quindi chiederci quali saranno le implicazioni a lungo termine di queste politiche sui contratti sociali nei Paesi liberal-democratici europei e le ripercussioni sull’ambiente naturale in cui viviamo.

Da un lato la costruzione dell’emergenza intorno alla crisi climatica, sebbene in atto da diversi decenni, ha portato alla depoliticizzazione delle scelte in materia di clima impedendo la costruzione di un sostegno dal basso. Dall’altro lato la transizione in sé non condurrà a un nuovo modello economico e di sviluppo, a meno che non vengano affrontate le attuali disuguaglianze sociali. Al contrario, molti sostengono che partiti populisti hanno intrapreso una costruzione discorsiva contro le politiche climatiche, il cosiddetto ‘greenlash’, negando la realtà del riscaldamento globale causato dall’uomo, cooptando la crisi ecologica a sostegno delle richieste di protezionismo economico e contro le migrazioni, invocando la ‘sovranità ecologica’ sull’ambiente e denunciando le diseguaglianze sociali della popolazione ‘tagliata fuori’.

La Commissione sta tentando di guidare il processo adottando specifici parametri che evitino il rischio di creare nuove diseguaglianze. In tal senso, insieme ai finanziamenti del Next Generation EU, ha avanzato un meccanismo dedicato a una transizione equa (Just Transition Mechanism). Questo comprende due fondi, il Just Transition Fund (JTF) e il Social Climate Fund (SCF), concepiti nel quadro della politica di coesione e principalmente per fornire supporto alle regioni e ai settori – come l’industria pesante e automotive – che subiranno gli impatti più significativi della transizione a causa della loro dipendenza dai combustibili fossili e dai processi industriali ad alta intensità di gas serra. L’agenda sociale e quella verde non possono essere portate avanti con successo separatamente l’una dall’altra: devono essere concepite e attuate come due facce della stessa medaglia della giusta transizione.

Come perseguire la giustizia sociale nella transizione?

Una rivoluzione industriale è in atto in Europa, l’intero sistema economico è in trasformazione, e le politiche del Green Deal prevedono in particolare lo stimolo dell’economia con nuove tecnologie verdi, di creare un’industria e un settore dei trasporti ‘sostenibili’. I fondi sopra menzionati (JTF e SCF) tuttavia non equivalgono né a uno Stato eco-sociale né a un modello di transizione equo che affronti l’intersezione dei problemi ambientali e sociali. Inoltre, la nozione verticistica di transizione giusta, e le varie forme di conflitto politico, comprometterebbero la capacità dell’Unione ad affrontare la portata delle disuguaglianze che potrebbero essere esacerbate in futuro. Infatti, sebbene il cambiamento climatico richieda misure a livello europeo, è difficile trovare un accordo quando l’esposizione ai problemi legati al clima varia da un Paese all’altro e i suoi effetti saranno avvertiti in modo non omogeneo.

Dal punto di vista economico-aziendale, una transizione verde richiede una profonda revisione del nostro attuale modello socio-economico, che tende a considerare sia le persone che il pianeta come fattori di produzione. Mentre la sostenibilità dal punto di vista sociale significa creare il maggior numero possibile di nuovi posti di lavoro ‘di qualità’. Traslare questo in politiche pubbliche, implicherà la trasformazione del maggior numero possibile di posti di lavoro non sostenibili in posti di lavoro sostenibili, accesso a opportunità di riqualificazione e aggiornamento professionale su larga scala e implementazione di un’adeguata protezione sociale per i lavoratori. Sostenibilità dunque significa successo a lungo termine nella transizione, negli adattamenti e nelle riforme senza impatti negativi, o almeno limitati, per nessuno.

Non lasciare indietro nessuno non è solo un imperativo morale, è una necessità pragmatica: se la transizione verde dovesse avvenire a scapito dei lavoratori, esacerbando le disuguaglianze e la povertà, i sistemi politici nazionali e le istituzioni europee subiranno un contraccolpo. Per tutti questi motivi, è essenziale promuovere legami più solidi tra i vari livelli della politica europea, in particolare tra il livello nazionale e quello comunitario. Questi legami possono contribuire a sviluppare un senso condiviso di responsabilità e a rafforzare la determinazione dei funzionari statali ed europei per intraprendere azioni condivise. Allo stesso tempo, l’Unione deve intensificare il suo impegno democratico nei confronti dei cittadini, incoraggiandoli a sostenere misure ampie, coerenti e vincolanti per combattere il cambiamento climatico.

La ‘razionalità verde’ capitalista

Se la sostenibilità ambientale è la capacità di preservare e proteggere l’ambiente naturale nel tempo, attraverso pratiche e politiche appropriate, è possibile affermare che Green Deal rimane «una nuova strategia di crescita» basata sulla stessa impostazione economica che ha portato alla crisi climatica. Per ragioni fisiche, implica un passaggio da tecnologie ad alta intensità di emissioni a tecnologie ad alta intensità di metalli, come il solare fotovoltaico, l’energia eolica, i veicoli elettrici, l’accumulo di batterie e le tecnologie dell’idrogeno basate sulle fonti rinnovabili e, di conseguenza, si prevede un’impennata della domanda di metalli come cobalto, litio, grafite, nichel, terre rare (REE) e metalli del gruppo del platino (PGM). Sebbene l’obiettivo delle politiche green sia quello di ridurre le emissioni del carbonio, persegue l’estrazione e il consumo continui di risorse, non sostenibili e non rinnovabili – attualmente le capacità di riciclo e circolarità sono al 10%–, il cui approvvigionamento provoca forti impatti ambientali e sociali.

La richiesta europea, e globale, di tali materiali, perpetua l’estrattivismo, il determinismo geografico e danneggia l’ambiente. La direttiva sui minerali critici (Critical Raw material Acts) ha innescato nuove retoriche eco-coloniali come ‘green mining’, ‘climate smart mining’, persino ‘mining for a low carbon future’. Le comunità indigene e locali di tutta l’UE e ben oltre i confini del continente sono colpite dall’estrattivismo verde. Un esempio delle esternalità delle politiche ambientali che hanno spinto all’aumento dell’estrazione del litio, è Salar de Atacama in Cile, terra ancestrale degli indigeni Lickanantay (Atacamenos). L’attività di estrazione del litio in questa regione ha causato pressioni socio-ambientali significative a causa dell’eccessivo utilizzo delle risorse idriche nelle zone legate all’acqua, generando, a sua volta, tensioni crescenti di natura etnica e culturale all’interno delle comunità locali.

Perseguire resilienza, competitività industriale e rafforzare la leadership Europea nel panorama della transizione, deve andare di pari passo con l’impegno democratico e un’alfabetizzazione ecologica, per rafforzare una società equa e neutrale dal punto di vista climatico. Inoltre, per mantenere la responsabilità e il consenso pubblico sarà necessario sviluppare ulteriori meccanismi per monitorare il progresso dell’UE nel suo insieme verso la neutralità carbonica, così come l’impatto dell’Unione sui diritti dei lavoratori e sulle esternalità delle comunità coinvolte. Sviluppare tali meccanismi è fondamentale perché permetterebbe alle persone di vedere come le misure climatiche stanno avendo un impatto concreto e che l’Unione è impegnata non solo nella retorica ma anche nell’azione.

Questo articolo, a cura di Ilona Zabrytska, è stato scritto in collaborazione da Orizzonti Politici e Affari Internazionali, la rivista dello IAI, nell’ambito del progetto sulle crisi umanitarie nel mondo

Foto di copertina EPA/TOMS KALNINS

Ultime pubblicazioni