Dopo la caduta repentina del regime di Bashar al-Assad in Siria il dicembre scorso l’equilibrio di potere in Medio Oriente si è spostato a favore della Turchia, impegnata ad assistere le autorità Siriane nella ristrutturazione dello Stato, dopo oltre cinquant’anni dominati dalla dittatura pro-Iran degli al-Assad. Seppur ciò abbia notevolmente indebolito l’Asse della Resistenza, la rete di alleanze composta da attori più o meno allineati con l’agenda iraniana, lo sconvolgimento regionale ha creato tanto nuovi rischi quanto nuove opportunità per la Repubblica Islamica. Da un lato, la fragilità del regime potrebbe condurlo a sviluppare capacità nucleari offensive, che preoccupano l’Occidente da quando venne dato inizio al programma nucleare negli anni Ottanta. Dall’altro, la presenza del moderato Masoud Pezeshkian alla guida della presidenza dell’Iran e di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbero dare impeto a un nuovo accordo sul nucleare iraniano. Quest’ultimo porrebbe un freno al processo di arricchimento dell’uranio, necessario per lo sviluppo dell’atomica, in cambio della revoca delle sanzioni americane che colpiscono duramente l’economia iraniana dal 2017.
Chi prende le decisioni sul nucleare in Iran?
Già una settimana prima della caduta di Al-Assad, l’8 dicembre scorso, Mohammad Javad Zarif, esponente di spicco della fazione riformista iraniana ora al governo, si rivolgeva alla comunità internazionale attraverso le pagine di Foreign Affairs, dichiarando la Repubblica Islamica “aperta alle negoziazioni”. Zarif, figura di rilievo nel panorama politico iraniano, vanta una carriera diplomatica di lungo corso: ambasciatore alle Nazioni Unite dal 2002 al 2007 e ministro degli Esteri dal 2013 al 2021, ruolo in cui ha guidato la delegazione iraniana nei delicati negoziati sul nucleare, culminati nel 2015 con la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPoA). Oggi, nella veste di vicepresidente, Zarif rappresenta la voce internazionale del presidente Pezeshkian, con il quale ha vinto un’elezione che ha visto la partecipazione di meno della metà degli elettori, svoltasi a seguito dell’improvvisa scomparsa del predecessore lo scorso luglio.
La vittoria elettorale di Pezeshkian rappresenta un chiaro riflesso del malcontento accumulatosi tra la popolazione iraniana dopo anni di difficoltà economiche e repressione sociale. Dal 2017 infatti il Paese continua a subire le conseguenze di un pervasivo regime sanzionatorio imposto dall’allora presidente americano Donald Trump, volto, in seguito al ritiro degli Stati Uniti dal JCPoA, a piegare il regime di Teheran attraverso una campagna di “massima pressione”. Da allora, la crescita è stata scarsa e l’inflazione annua si è stabilizzata intorno al 30%, erodendo il potere d’acquisto dei cittadini e spingendo gran parte della classe media verso condizioni di povertà. L’uccisione di Mahsa Jina Amini nel settembre 2022 ha poi innescato un movimento di protesta nazionale che ha visto i protestanti chiedere il rovesciamento del regime non democraticamente eletto. Dopo mesi di proteste e l’uccisione di quattrocento manifestanti, la precedente presidenza dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi è riuscita a ristabilire un precario ordine. Ciononostante le proteste hanno esposto inequivocabilmente tanto l’impopolarità del regime quanto la determinazione delle élites conservatrici e ultraconservatrici a proteggere la Rivoluzione Islamica.
Malgrado la crescente influenza della corrente più ideologica e meno pragmatica all’interno dell’élite ultraconservatrice, che si oppone per principio a qualsiasi negoziato con gli Stati Uniti, non è la prima volta che la Guida Suprema del Paese, l’Ayatollah Khamenei, valuta i negoziati come la scelta più strategica per avanzare gli interessi della Rivoluzione. Già le sanzioni del 2012 avevano convinto Khamenei a permettere al presidente di allora Rouhani, e al suo ministro degli esteri Zarif, di rendersi disponibile a negoziare con gli Stati Uniti, il “nemico”, un azione dettata dalla necessità di “flessibilità eroica”. Il risultato fu il JCPoA, concluso tra Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito, l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, e Iran, poi approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Durante la presidenza Biden c’è stato un tentativo di riesumare l’accordo ma l’influenza degli ultraconservatori, convinti che l’Iran dovesse temporeggiare per imporre i suoi termini, ha ostruito il processo.
Poi è arrivato il 7 ottobre 2023. Da quel momento, le Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) — il braccio militare e ideologico della Rivoluzione, che, pur sotto il controllo dell’Ayatollah, esercita una significativa influenza sulle questioni di politica estera — hanno abbandonato la politica della “pazienza strategica,” un approccio che prevedeva di assorbire gli attacchi esterni per rispondere in modo calcolato e tempestivo. Prima ad aprile, poi ad ottobre 2024, le IRGC hanno reagito direttamente a operazioni israeliane, lanciando attacchi missilistici contro Israele. Questa svolta ha rappresentato un significativo cambio di rotta nella strategia iraniana, segnando il passaggio a una forma di deterrenza più autonoma e assertiva, che mira a dimostrare la capacità e la volontà di Teheran di rispondere immediatamente quando attaccata, senza più ricorrere alla “pazienza strategica”. E ora che la Siria post-Assad separa la Repubblica Islamica, almeno nel breve termine, dal suo alleato più forte e leale, Hezbollah, il programma nucleare ha sicuramente guadagnato ancora più importanza strategica.
L’approvazione finale delle decisioni di politica estera spetta sempre all’Ayatollah, che siede al vertice dello Stato. Tuttavia, ciò non significa che tali decisioni non siano fortemente influenzate dalle diverse fazioni interne. Da un lato, Pezeshkian può contare sul malcontento popolare e sulla necessità del regime di migliorare le condizioni economiche del Paese per evitare ulteriori disordini, come quelli del 2022. Dall’altro, l’Ayatollah deve evitare di fornire alle IRGC motivi per contestare la sua leadership in qualità di Guida Suprema, che ricopre la con un mandato a vita dal 1989. Inoltre, l’Ayatollah ha raggiunto gli 85 anni di età, e le varie fazioni stanno già cercando di consolidare le proprie posizioni in vista dell’era post-Khamenei. In questo contesto, la politica estera iraniana rimane un delicato equilibrio tra pragmatismo e ideologia, talvolta incongruente e dettato da esigenze interne e pressioni internazionali.
Il Fattore Trump
L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha ulteriormente complicato lo scenario geopolitico, introducendo un senso di incertezza ma anche di opportunità per una regione già sospesa sull’orlo dell’instabilità, a causa della mancanza di una prospettiva credibile e condivisa di coesistenza per israeliani e palestinesi. Il recente cessate il fuoco tra Israele e Hamas, ad esempio, non sarebbe stato possibile senza la pressione da lui esercitata su Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano. Questo episodio ha attirato l’attenzione di molti leader regionali, che, seppur con buona dose di scetticismo, riconoscono che il “fattore Trump” possa favorire dinamiche inaspettate, soprattutto in un contesto in cui la stabilità rimane un obiettivo prioritario. “La resistenza continuerà fino a che c’è l’occupazione” ha fatto sapere Zarif al World Economic Forum di Davos lo scorso gennaio. E insieme alla resistenza Palestinese l’instabilità regionale.
Già nel 2020, l’amministrazione Trump aveva elaborato un piano ambizioso, noto come “Accordo del Secolo”, con l’obiettivo di risolvere il conflitto israelo-palestinese. È possibile che Trump decida di riprenderlo in considerazione, ripescandolo dallo scaffale. Tuttavia, questa volta sarà quasi inevitabile dover offrire maggiori concessioni e garanzie ai palestinesi se vorrà ottenere un impatto positivo e duraturo nella regione durante entro il termine del mandato presidenziale. Hamas, pur essendo stato colpito duramente, mantiene il controllo della Striscia di Gaza. La lotta armata si riaccenderà qualora Israele violasse i termini del cessate il fuoco o, più in generale, finché non verrà realizzata una soluzione politica che porti alla creazione di uno Stato palestinese ritenuto accettabile dalla leadership di Hamas e dalla popolazione palestinese. Inoltre, la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Arabia Saudita dipende in larga parte da quali concessioni Trump sarà disposto a dare ai Palestinesi facendo pressione su Netanyahu.
In questo intricato quadro regionale, il dossier nucleare iraniano emerge come elemento cardine, intrecciato a dinamiche regionali e calcoli strategici. L’amministrazione Trump potrebbe optare per inasprire ulteriormente le sanzioni economiche al fine di esercitare pressione su Khamenei e avanzare richieste su più livelli. Non solo limitazioni al programma atomico, ma anche un sostegno formale alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, unitamente a un ridimensionamento del sostegno iraniano all’Asse della Resistenza. Sebbene Khamenei possa ancora ricorrere alla “flessibilità eroica” in nome della sopravvivenza del sistema, ottenere il consenso delle fazioni ultraconservatrici su tali concessioni rappresenterà una sfida politica altamente delicata, che di minare la coesione interna del regime negli ultimi cruciali anni a guida della Repubblica Islamica.
Pur indebolito da sanzioni, instabilità sociale e gli attacchi israeliani, l’Iran conserva un’arma asimmetrica: la capacità delle IRGC di destabilizzare il Medio Oriente attraverso l’Asse della Resistenza e, in linea teorica, sfruttando la precarietà della transizione siriana, strumento che conferisce a Teheran un margine di influenza negli eventuali tavoli negoziali. Parallelamente, Trump dovrà contemperare le pressioni di Netanyahu, il quale – stretto tra le richieste della coalizione governativa israeliana che spinge per riaccendere il conflitto a Gaza – potrebbe cercare di sabotare un accordo percepito come troppo conciliante.
In questo scacchiere geopolitico, caratterizzato da una complessa miscela di rivalità e interdipendenza, ogni attore detiene il potere di alterare gli equilibri strategici altrui. Tuttavia, una cronica mancanza di fiducia reciproca, profonde insicurezze, e interessi personali rischiano di innescare effetti domino destabilizzanti, con ripercussioni che potrebbero compromettere la stabilità dell’intera regione.