di Iacopo Andreone
A inizio marzo, il consigliere per l’Africa della Casa Bianca Massad Boulos ha incontrato a Kinshasa il presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, rilanciando la proposta, avanzata precedentemente da parte congolese, di un’intesa bilaterale incentrata su minerali critici e sicurezza. L’accordo, i cui termini sono ancora da definire, prevederebbe l’accesso preferenziale degli Stati Uniti ai giacimenti di minerali dal valore strategico – tra cui cobalto, rame e litio – in cambio di supporto contro l’avanzata dei ribelli dell’M23, attivi nell’est del Paese. Il gruppo ribelle ha esteso negli ultimi mesi il suo controllo su aree ricche di risorse naturali, grazie soprattutto al supporto diretto del Ruanda, come anche confermato da fonti delle Nazioni Unite.
Sul terreno, la situazione resta instabile: l’offensiva dell’M23 ha provocato nuovi sfollamenti, paralizzato le attività economiche e aggravato la crisi umanitaria, mentre l’esercito congolese fatica a contenere l’avanzata del gruppo ribelle. Il 23 aprile, la RDC e l’M23 hanno annunciato un impegno congiunto per raggiungere un cessate il fuoco, grazie alla mediazione del Qatar. Entrambe le parti si sono impegnate a cessare immediatamente le ostilità e a proseguire il dialogo per raggiungere un accordo definitivo. Contemporaneamente, rappresentanti dei governi di Kinshasa e di Kigali si sono incontrati a Washington e si sono impegnati al raggiungimento di un accordo di pace entro maggio, grazie alla mediazione del governo americano.
La RDC detiene oltre il 60% della produzione globale di cobalto, un minerale cruciale per batterie, veicoli elettrici e tecnologie verdi. Ad oggi, la Cina controlla circa il 70% della raffinazione mondiale di cobalto e ha acquisito numerose concessioni minerarie in territorio congolese attraverso una rete di aziende statali e joint ventures. Per Washington, rompere questa egemonia vorrebbe dire costruire filiere alternative, più resilienti e politicamente sicure, a costo però di un maggiore coinvolgimento diretto nel conflitto regionale.
I termini dell’accordo
I dettagli dell’intesa tra Stati Uniti e Repubblica Democratica del Congo non sono ancora stati ufficializzati. Tuttavia, da fonti vicine all’esecutivo congolese emergono alcune linee guida. Washington potrebbe essere disposta a investire nel potenziamento della sicurezza congolese, con particolare attenzione all’addestramento delle forze armate congolesi, al supporto tecnico contro i gruppi armati e alla fornitura di intelligence. In cambio, Kinshasa offrirebbe l’accesso diretto – tramite concessioni – a una serie di giacimenti minerari, soprattutto nelle province meridionali di Lualaba e dell’Alto Katanga, dove operano già grandi società multinazionali provenienti da tutto il mondo. Tali aree, peraltro, sono considerate strategiche non solo per la presenza di cobalto e rame, ma anche per la vicinanza a infrastrutture già consolidate.
Un elemento rilevante è l’intenzione americana di strutturare l’intesa come parte di una strategia su più livelli di cooperazione: non solo tramite contratti bilaterali, ma anche investimenti in infrastrutture, energia e digitalizzazione, eventualmente integrati in progetti già avviati dalla Banca Mondiale o dall’International Development Finance Corporation. Il coinvolgimento di partner multilaterali consentirebbe inoltre di ridurre i costi iniziali e aumentare l’appeal dell’accordo presso investitori privati, in particolare nel settore delle tecnologie verdi.
In questo quadro, l’accordo rappresenterebbe una risposta mirata all’influenza cinese, ma anche un banco di prova per un diverso modello di cooperazione. Resta però da capire in che misura le autorità congolesi riusciranno a far valere i propri interessi, evitando che la logica dello scambio risorse-sicurezza finisca per riprodurre schemi già visti in passato, spesso poco vantaggiosi per la parte africana. L’efficacia dell’intesa dipenderà anche dalla sua capacità di generare effetti concreti a livello locale in ambito economico e infrastrutturale.
La posta in gioco
La corsa al controllo dei minerali critici è ormai uno dei principali fattori di tensione nello scenario globale contemporaneo. Il cobalto, elemento indispensabile per la produzione di batterie al litio e tecnologie a basse emissioni, è ormai un fattore centrale della sicurezza energetica delle grandi potenze. La Repubblica Democratica del Congo, da sola, ne produce oltre il 70% a livello mondiale. Un primato che, in assenza di istituzioni stabili e infrastrutture adeguate, si è tradotto in una fragilità sistemica: il settore è dominato da interessi stranieri, segnato da corruzione, sfruttamento e conflitti ricorrenti, in particolare nelle province orientali.
La Cina ha saputo inserirsi in questo vuoto con una strategia di lungo periodo. Attraverso una rete articolata di acquisizioni e joint ventures, Pechino ha consolidato la propria presenza in RDC, spesso approfittando della debolezza contrattuale delle controparti locali. Il gruppo China Molybdenum (primo produttore al mondo), così come altre imprese statali e veicoli di investimento legati al governo come Zijin Mining o Huayou Cobalt, ha ottenuto concessioni minerarie strategiche, in alcuni casi a condizioni opache. Questo le ha consentito di esercitare un controllo quasi monopolistico non solo sull’estrazione, ma anche sulla fase di raffinazione e trasporto, rendendo la Cina un attore imprescindibile per l’intera filiera globale del cobalto.
L’iniziativa americana potrebbe evolvere in un tentativo esplicito di ridefinire gli equilibri nella regione. Non si tratta soltanto di ottenere accesso a nuove risorse, ma di riscrivere le regole di una filiera strategica. Washington punta a creare alternative alla dipendenza cinese, promuovendo standard ambientali e lavorativi più elevati, e integrando la filiera africana in partenariati con Paesi alleati, come previsto anche nel framework del Minerals Security Partnership, approccio mirato a ridurre le asimmetrie attuali, ma che implica sfide rilevanti in termini di tempi, capacità industriale e credibilità politica.
Tuttavia, questa visione si scontra con la realtà sul terreno: i costi logistici, le tensioni etniche e l’instabilità delle province orientali – dove persistono milizie armate come l’M23 – rendono difficile qualsiasi tentativo di intervento diretto. La presenza crescente di attori regionali, come il Ruanda e l’Uganda, accentua la complessità geopolitica e rende difficile delimitare con chiarezza i confini tra interessi economici, dinamiche militari e alleanze politiche. Il controllo delle risorse essenziali per la transizione energetica sta progressivamente assumendo i contorni di una frizione sistemica. Al centro di questo accordo c’è una partita più ampia: l’equilibrio industriale tra Stati Uniti e Cina. Il controllo delle risorse chiave per la transizione energetica sta diventando un nuovo terreno di confronto strategico, dove la superiorità cinese nel settore delle batterie rischia di essere messa in discussione. La RDC si ritrova così al centro di una competizione che ha tutte le caratteristiche di un nuovo fronte di una nuova guerra fredda tecnologica.
Orizzonti Politici (o OriPo) è un think tank giovanile italiano impegnato nell’analisi di politica internazionale, politiche pubbliche ed economia.