Qualcosa di nuovo sul fronte settentrionale

Le guerre tendono spesso ad accelerare decisioni ormai mature o inevitabili ma, per lo più, rinviate per ragioni di prudenza o opportunità. L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto la Nato a consolidare, rafforzare ed estendere il dispiegamento di forze alleate nei Paesi più a ridosso del conflitto, ben oltre l’Enhanced Forward Presence stabilita nei tre stati baltici e in Polonia in seguito all’annessione russa della Crimea e alla “ribellione” nel Donbass.

Ucraina game changer nei rapporti Nato

Quella che era stata essenzialmente un’operazione mirante a rassicurare gli alleati più esposti e a dissuadere i russi – lanciata ancora nel rispetto formale del Founding Act firmato con Mosca nel 1997 (nessuna forza alleata “permanente” superiore ad una brigata in Europa centro-orientale) – è ora diventata un’azione molto più sistematica, estesa e (presumibilmente) duratura che copre l’intera area dal Baltico al Mar Nero.

Diversi alleati si sono inoltre impegnati ad aumentare le loro spese militari in tempi più rapidi e su scala più ampia rispetto anche a solo pochi mesi fa. E l’Unione Europea, per parte sua, si è impegnata a sostenere più direttamente l’Ucraina, anche sul piano strettamente militare, e ad emanciparsi il più (presto) possibile dalla sua dipendenza energetica da Mosca – senza contare le sanzioni già adottate da Bruxelles fin dall’inizio del conflitto.

La brutalità dell’aggressione russa ha anche convinto le élite politiche del Nord Europa a mettere da parte vecchi tabù, puntando sull’impatto della guerra per affrontare di petto la questione della loro collocazione strategica. Finlandia e Svezia potrebbero così decidere entro poche settimane di chiedere l’adesione alla Nato, mentre la Danimarca ha convocato per il 1 giugno prossimo un referendum consultivo per sopprimere la propria esenzione (opt-out) in materia di difesa europea, che data ormai dal 1993.

La ricollocazione strategica di Finlandia e Svezia

Finlandia e Svezia, peraltro, sono già strettamente associate alle attività dell’Alleanza atlantica: i loro governi partecipano da tempo (assieme ai rappresentanti dell’Ue) a specifiche riunioni ministeriali e a vertici Nato, e i loro militari ad esercitazioni alleate (ne hanno perfino ospitato una un paio di anni fa), oltre ad aver accesso a parte dell’informazione riservata che circola nel quartier generale di Bruxelles. La loro neutralità – quella finlandese data dal 1944, quella svedese addirittura dal 1814 – è oggi insomma più formale e residuale che sostanziale, anche se fino a poche settimane or sono le loro opinioni pubbliche restavano incerte e divise sull’eventuale adesione alla NATO.

La guerra in Ucraina ha cambiato tutto questo, spingendo in particolare i rispettivi partiti socialdemocratici – entrambi al governo, e tradizionali difensori della neutralità come elemento di identità nazionale – e populisti (i True Finns e gli Sweden Democrats, i più scettici sulla NATO) ad un drastico ripensamento.

E se ancora di recente ogni eventuale svolta pareva dover passare attraverso una consultazione popolare, ora la decisione potrebbe essere adottata a semplice livello parlamentare (sia pure a maggioranza qualificata), in parte anche per poter presentare le candidature (tanto più forti e credibili se congiunte) già al prossimo vertice NATO di Madrid, a fine giugno.

Ad Helsinki il parlamento dibatterà l’opzione nei prossimi giorni, mentre a Stoccolma l’accelerazione sembra dovuta anche alla volontà di prendere una decisione condivisa fra le forze politiche prima delle elezioni parlamentari, in calendario per settembre.

Il referendum in Danimarca

A Copenhagen la convergenza fra i partiti sulla convocazione del referendum, decisa il mese scorso, ha seguito uno spartito molto simile, e punta evidentemente a superare la situazione creatasi una trentina di anni fa, in virtù della quale la Danimarca si è auto-esclusa dagli sviluppi via via intervenuti in materia di difesa europea, con conseguenze negative anche sulla sua cooperazione militare con i vicini nordici.

L’esito del referendum resta evidentemente aperto: i due precedenti tentativi dei partiti danesi di superare gli opt-out ottenuti nel contesto della ratifica del trattato di Maastricht – il primo compiuto nel 2000, per l’euro, e il secondo nel 2015 per la giustizia e gli affari interni – furono infatti respinti dai cittadini. Ma quanto più durerà l’aggressione russa all’Ucraina, tanto più potrebbe rafforzarsi la determinazione dell’Europa (non soltanto nordica) a superare differenze che non hanno sempre contribuito all’efficacia dell’azione comune e alla stessa cooperazione fra Nato e Ue.

E se è difficile aspettarsi una svolta paragonabile nell’altro paese neutrale dell’Europa continentale – l’Austria, il cui status è garantito da un trattato internazionale che risale al 1955 e include Mosca come garante – è senz’altro auspicabile attendersi una rapida ratifica da parte degli alleati per l’eventuale adesione di Finlandia e Svezia, anche per non esporre i due paesi ad un’attesa protratta e potenzialmente molto rischiosa.

Foto di copertina EPA/PAUL WENNERHOLM SWEDEN OUT

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