2025 La galassia del terrore

Da quel fatidico 11 settembre 2001, il mondo ha imparato a fare i conti con la minaccia persistente del terrorismo. Un fenomeno di certo non nuovo, ma che negli ultimi vent’anni ha assunto caratteristiche  di autentica minaccia sistemica alla sicurezza internazionale. Prima al-Qaeda, con la sua struttura verticistica e i suoi santuari in Asia Centrale. Dopo la sua decapitazione – con l’uccisione di Osama Bin Laden nel rifugio di Abbottabad, in Pakistan – sono nate diverse cellule locali affiliate nel Maghreb islamico, nella Penisola arabica, in Iraq e gli Shabaab somali, emerse come punti di una rete che ha trovato conveniente assumere il “brand” di al-Qaeda e la missione di costruire piccoli califfati nell’area che va dal Marocco all’Asia Centrale. Una delle caratteristiche essenziali di tutte le organizzazioni terroristiche è l’imprevedibilità. Queste organizzazioni si muovono per gruppi e agiscono di sorpresa, rendendo sterile, se non impossibile, la capacità di deterrenza. Per questo le strade delle nostre città e di quelle mediorientali hanno spesso dovuto fare i conti con attacchi terroristici devastanti. Si colpisce di sorpresa, dove è più doloroso e meno probabile. 

Il tentativo dell’ISIS di costruire un Califfato 

Qualcosa però di recente è cambiato. Con la comparsa sulla scena del Da’esh (o Stato Islamico – ISIS), assistiamo per la prima volta nella storia al tentativo di un’organizzazione terroristica di “farsi Stato”, di dotarsi di una dimensione territoriale e di una giurisdizione, dunque di una forma diversa rispetto alla sua tipica organizzazione orizzontale. E prova a farlo laddove la geografia di altri Stati pre-esistenti, in particolare tra Siria e Iraq, stava collassando, aprendo spazi enormi per la conquista. Da’esh è stato un caso unico ed emblematico: un coacervo di ex combattenti e reduci di al-Qaeda, militanti salafiti giunti da ogni parte del Medio Oriente, piccoli gruppi armati di ispirazione sunnita ed ex militari iracheni vicini a Saddam Hussein, uniti dal progetto di ricostruire un Califfato. Quando il sedicente Califfo e guida dello Stato Islamico, al-Baghdadi, pronuncia il suo celebre sermone nella moschea di Mosul, utilizza espressioni chiare: la missione del Da’esh è “distruggere gli apostati sciiti, terrorizzare l’Occidente e ricostruire il Califfato”. Da quella moschea, al-Baghdadi sale poi su un pick-up per dirigersi verso il luogo in cui, in precedenza, una linea nella sabbia e un po’ di filo spinato dividevano l’Iraq dalla Siria. Da quel luogo simbolico, il Califfo chiama a raccolta i combattenti da ogni parte del mondo, chiedendo loro di raggiungere la battaglia e di dar vita a un nuovo Stato. Saranno molti i combattenti stranieri che aderiranno a quell’appello, partiti anche dall’Occidente e dall’Italia. 

Il grido più forte di Da’esh

Mentre l’ISIS prova a superare la sua natura di organizzazione terroristica e a farsi Stato, l’Occidente e l’Europa tornano preda di attacchi violentissimi ai propri cittadini e ai propri simboli. Monaco di Baviera, Barcellona, Parigi, Strasburgo, Londra, Nizza diventano il proscenio per una lotta interna alla galassia delle organizzazioni integraliste. È il modo che il Da’esh sperimenta per gridare più forte e attrarre più finanziamenti e manodopera. Il tentativo di riportare in vita il Califfato dalle ceneri di Stati di carta però fallisce. Complici le diatribe interne e l’uccisione di al-Baghdadi, Da’esh scompare nella sua forma più organizzata e preoccupante. Non i suoi vertici, né i suoi miliziani, che tornano alla lotta in una dimensione più locale, impegnati a scalare posizioni negli spazi delle guerre civili e di secessione che, improvvidamente, abbiamo chiamato “Primavere arabe”. In Siria e il Libia in particolare, dove tribù e fazioni armate si scontrano da più di dieci anni per il controllo di porzioni di territorio. Bashar al-Assad, il Presidente siriano erede di una dinastia che governa da oltre cinquant’anni il Paese, lo aveva compreso prima di altri. Il suo obiettivo non era riconquistare il controllo dell’intero paese, ma blindare la sua permanenza e quella del suo clan alawita in una striscia di territorio che dalla capitale Damasco arriva fino alla città costiera di Latakia, nel nord. Una sorta di “Alawitistan”, un protettorato di Iran e Russia nel cuore del Medio Oriente. È attorno a questo disegno che si è costruita la narrativa di una mezzaluna sciita che da Teheran poteva raggiungere Damasco e il sud del Libano, trovando, ovviamente, l’opposizione dei Paesi e delle forze sunnite della regione, inclusi i movimenti di ispirazione integralista e le organizzazioni terroristiche figlie del Da’esh. Jabat-al Nusra è una di queste fazioni, forse la più importante e la meglio organizzata in Siria. Ha articolazioni in Libano e in Iraq e un canale di comunicazione diretto con la Turchia di Erdogan. La sua matrice integralista rende il movimento aggressivo e spietato, come in occasione del mai troppo ricordato massacro di Maaloula, la città cristiana costruita nella roccia, teatro di un autentico pogrom

La Siria di al-Jolani, dal terrorismo al potere

Il capo di al-Nusra è al-Jolani, un curriculum criminale lungo. Prima in al-Qaeda come luogotenente locale, poi nei ranghi di Da’esh, da dove esce in polemica addirittura con il Califfo al- Baghdadi; infine, fondatore del movimento Hayat Tharir al-Sham (HTS), che abbandona qualsiasi velleità di rivoluzione globale per occuparsi soltanto di Siria. Il compito di al-Jolani è soprattutto quello di cercare sponsor per tenere in piedi una struttura non troppo corposa ma ben addestrata. È il Presidente turco Erdogan a immaginare che quel gruppo, più di altri, possa avere un ruolo nel contenere le ambizioni dei Curdi che operano da anni nell’est della Siria con una propria milizia. Al-Jolani accetta volentieri il sostegno di Ankara e rassicura Erdogan sul futuro. Prima, però, dovrà occuparsi di arrivare a Damasco, cancellare i simboli del potere, magari catturare il dittatore. Il tutto richiederà appena dieci giorni, un tempo sorprendente e impensabile perfino in Turchia. Così la Siria passa da più di mezzo secolo di dittatura a un governo di transizione formalmente gestito da un’organizzazione terroristica, segnalata nella lista delle sanzioni internazionali e americane. Da quel tragico 11 settembre, lo scopo principale della politica estera americana in Medio Oriente è impedire la costruzione di santuari e luoghi sicuri per i terroristi. Il pericolo di una nuova piattaforma per organizzazioni come al-Qaeda, decapitata ma mai distrutta, o il Da’esh, che non potrà più costruire uno stato islamico ma che conta ancora diversi affiliati, è reale. Al ruolo delle diplomazie e degli apparati di sicurezza il compito di scongiurare questo rischio.  Il terrorismo è un fenomeno antico quanto l’uomo. Mutano le sue forme e i protagonisti. Ma soprattutto evolve e si affina la sua capacità di riempire spazi lasciati vuoti da Stati, Governi, forze armate e società civile. In Medio Oriente, ora che è iniziata la più poderosa scomposizione geografica e di interessi della storia contemporanea, di vuoti ce ne sono già parecchi. 

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