Il 2024 si preannuncia come un anno cruciale. Non sulla base del sempre più complesso ottimismo della volontà, ma come conseguenza di due dati emblematici. Il primo è che nel 2023, per la prima volta nella storia, il PIL dell’Occidente è sceso sotto il 50% della ricchezza globale. Vedremo se questo trend si consoliderà il prossimo anno. Il secondo è che nel 2024 ben 70 Paesi, ovvero più di 2 miliardi di persone, andranno al voto.
Gli occhi sono ovviamente puntati sulla seconda parte dell’anno e sulle elezioni negli Stati Uniti. Ma alle urne andranno anche il Regno Unito, l’India, l’Indonesia, il Bangladesh, il Messico e i 18 milioni di abitanti di Taiwan. In alcuni casi, come in Bielorussia o in Ruanda, si tratterà solo di verificare lo scarto dal 100% dei consensi per il Presidente uscente. In altri Paesi, soprattutto africani, c’è il rischio di un ritorno ad un passato drammatico, visti i nove colpi di Stato avvenuti nel Continente dal 2020 ad oggi.
Molti altri appuntamenti elettorali ci dovranno però dire due cose fondamentali: quanto è solida la prospettiva di un “Global South”, ovvero di un nuovo “non allineamento” e, in secondo luogo, qual è il futuro della democrazia.
Che la democrazia continui ad essere un sistema politico minoritario nel mondo è ormai un dato acquisito. L’unica, lieve inversione di tendenza, registrata negli anni successivi alla fine della Guerra Fredda, si è dimostrata effimera. Il mondo continua ad essere governato in prevalenza da autocrazie o da forme ibride di “democrature”, sistemi formalmente democratici con però forti limitazioni o violazioni dei diritti civili, sociali o politici.
In questo turbolento pianeta del post-Covid stiamo in realtà assistendo all’affermazione del multipolarismo. Un obiettivo sperato da molti in passato, ma che si sta via via realizzando nella maniera peggiore possibile, con traumi, conflitti e tensioni crescenti. Il “non allineamento” sta diventando in questo senso un’arma potente. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, dall’Indonesia ai Paesi del Golfo, i protagonisti hanno oggi mezzi, risorse e forse una nuova coscienza geopolitica per realizzare i loro obiettivi. C’è da scommettere che useranno a loro vantaggio l’instabilità determinata dai conflitti in corso e che, probabilmente, si affideranno a quegli strumenti di politica industriale che in Occidente abbiamo sperimentato nello scorso secolo: dirigismo in economia e capitalismo politico. Si tratterà, già dal prossimo anno, di verificare quanto questo modello diventerà attrattivo per il resto del mondo.
Alla guida di questo nuovo “non allineamento” c’è indubbiamente l’India di Modi. Mentre il mondo si divide nuovamente in blocchi e vede una distribuzione del potere, la strategia indiana approfitta del divorzio tra Cina, Russia e Occidente. Il Sud globale rappresenterà nel 2030 i tre quarti della popolazione mondiale e il 60% del PIL globale. L’ambizione di questi Paesi è diventare egemoni regionali e il loro convincimento è che solo non schierandosi, ma approfittando delle opportunità e delle debolezze dei due fronti, si possa servire al meglio questo obiettivo.
C’è un terreno in particolare sul quale si giocherà la competizione più accesa nei prossimi anni. È il terreno delle nuove tecnologie: il 6G, il nucleare, l’Intelligenza Artificiale, le scienze della vita, le tecnologie verdi e i semiconduttori. Le democrazie sono avvertite. Se smetteranno di funzionare, inceppando i propri meccanismi in quella che Fukuyama ha definito una “vetocrazia”, se smetteranno di innovare si condanneranno alla marginalità, se non all’irrilevanza. Il protezionismo semplicemente non è più la risposta. Non siamo più di fronte ad uno schema “ricchi contro poveri” o “progresso contro simulazione”. Siamo entrati in un contesto ben diverso di diretta competizione, con tutte le conseguenze, anche drammatiche, che possiamo già sperimentare.
Per le democrazie si tratta di una sfida esistenziale, nella quale i due aspetti sono strettamente connessi. La capacità di rendere coese le società ed efficienti i sistemi politici passa oggi attraverso una nuova consapevolezza, quella di avere ancora molto da dire e da dare al mondo. In fondo, appena pochi mesi fa, la storia affascinante ed impressionante legata ai vaccini contro il Covid-19 ci ha detto molto delle capacità dell’Occidente di innovare. Sarebbe sbagliato leggere la risposta alla crisi pandemica come una corsa tra un “vaccino democratico”, indubbiamente efficace e sicuro, e un “vaccino autocratico” di cui sappiamo poco o nulla, per la mancanza assoluta di dati trasparenti, mai messi a disposizione da Cina o Russia. Ma è su quel sentiero di efficacia, innovazione e sperimentazione che le democrazie dovranno continuare a muoversi se vorranno dimostrare di saper coniugare, anche in questo nuovo secolo, i valori con l’efficienza degli strumenti. D’altronde, solo nelle democrazie si discute oggi della dimensione etica dell’Intelligenza Artificiale. Ma la risposta all’incognito non deve essere la negazione o la censura. Piuttosto serve una positiva, solida capacità di rendere quello, come molti altri, uno strumento e non un fine. Ciò da sempre distingue i diversi regimi politici: l’innovazione come strumento alimenta la coesione sociale e distribuisce i benefici; l’innovazione come fine implica la mobilitazione generale e coatta e restringe le opportunità per pochi.
Le democrazie sono indubbiamente molto più fragili oggi. Saranno sottoposte, già dal 2024, ad una pressione senza precedenti. Arriverà dall’interno, a causa del deterioramento della coesione sociale. Dall’esterno, per la crescente competizione globale e l’impatto di cambiamenti asimmetrici epocali, come il cambiamento climatico. Dovranno saper calibrare e gestire una risposta non semplice ma necessaria. Dal 2024 sapremo se la strada intrapresa sarà quella giusta.