Israele colpito dalla ‘strategia silente’ di Hamas

Israele è in guerra, e la guerra, stavolta, è in casa. Un attacco senza precedenti ha trovato il paese ebraico impreparato e lo ha fatto piombare nel suo peggiore incubo. Neanche la memoria dei giorni più bui delle intifade o degli altri momenti belligeranti che hanno segnato i millenni di questa martoriata terra, riescono ad avere l’impatto che sta avendo nella popolazione quanto successo sabato scorso, l’ultimo giorno della festa ebraica di Sukkot. Quando Israele, al termine di due settimane di feste, si è risvegliato nell’incubo. Complici anche le immagini che provengono al di qua e di là della Striscia, con protagonisti centinaia di civili israeliani.

La breccia nel confine più controllato

La domanda è: come è possibile che oltre mille miliziani di Hamas e del Jihad Islamico Palestinese abbiano impunemente attraversato con propri mezzi le recinzioni che dividono Israele e la Striscia senza che nessuno dei servizi israeliani se ne accorgesse? Come è possibile che siano riusciti a prendere in ostaggio oltre 100 persone, conquistando intere zone e città, facendo più di settecento vittime? Come è possibile fare breccia così facilmente in uno dei confini più controllati? Domande alle quali nessuno sa rispondere, ma che passata la furia dei primi giorni di guerra, in un paese democratico dovranno uscire ed essere soddisfatte.

È chiaro che l’operazione congiunta dei due gruppi che controllano Gaza, non è stata casuale. Si è trattato di una vittoria strategica e militare dei miliziani della Striscia e dei suoi sodali, con conseguente sconfitta di Israele e dei suoi apparati. Una operazione studiata a tavolino e preparata lungamente. Non si può improvvisare un movimento del genere in pochi mesi.

In verità, da molto tempo che Hamas era silente. Israele è stato impegnato in massicce campagne contro gruppi antagonisti nei territori palestinesi, in particolare a Jenin e Nablus. In queste città, soprattutto la prima, una forte radicalizzazione ha foraggiato la nascita di bande militari che hanno risposto duramente, e qualche volta anche con successo, ai raid che l’esercito ha compiuto su base settimanale o più nei campi profughi e nei suq delle città, alla ricerca di fiancheggiatori e terroristi. Radicalizzazione avvenuta per due fattori: da un lato l’assenza totale dell’Autorità Nazionale Palestinese; dall’altra l’infiltrazione e la sempre più strisciante crescita esponenziale di Hamas e Jihad nei Territori Palestinesi.

L’isolamento di Abbas

Nel primo caso, a trenta anni dagli accordi di Oslo, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e i suoi hanno perso sempre più contatto con la realtà e il terreno. L’ottuagenario presidente, che si trascina a forza, senza consenso, alla guida dell’organismo amministrativo che, nelle intenzioni di Arafat e molti sostenitori degli accordi, avrebbe dovuto portare alla creazione dello stato palestinese, è isolato dentro e fuori il Paese, non riveste l’autorità che dovrebbe, non ha mai inciso in alcun modo, spettatore non attore in un periodo importante per questa martoriata terra.

Poteva essere centrale anche nel progetto degli accordi di Abramo che, seppur hanno come recondito motivo quello di isolare i palestinesi, con un leader diverso a Ramallah, piuttosto che parlare di coltellata nelle spalle, avrebbero potuto far emergere sempre più la questione palestinese che invece, proprio a casa del presidente ottuagenario, è stata messa in disparte. Con, ovviamente, tutto quello che ne consegue in relazione a vuoto di potere, di credibilità, di rappresentanza e aiuti.

La ‘strategia silente’ di Hamas

Ovviamente, le risposte ai cittadini palestinesi vanno date. La questione dei palestinesi, della loro stessa esistenza e sopravvivenza è diventata sempre più centrale rispetto alla formazione dello stato. Risposte che, soprattutto i giovani, coloro che hanno vissuto sempre e solo in guerra, hanno trovato nei gruppi radicali. Si spiega così l’affermazione delle liste legate ad Hamas e Jihad nelle università palestinesi, dove hanno fatto man bassa dei consigli. La strategia è semplice: per sovvertire totalmente l’ordine costituito, non più ritenuto credibile, si parte dal basso. Lentamente, sottotraccia, senza destare troppa attenzione. Si conquista consenso prestando dando risposte soprattutto ai bisogni. Non importa se la soluzione proposta può comportare pericoli, anche perché la posta in gioco è alta: riprendersi il governo palestinese sottratto dal colpo di mano di Abu Mazen nel 2007, dopo la chiara vittoria alle elezioni.

Proprio questa sempre crescente, strisciante e silenziosa strategia di acquisizione del consenso e di aumento dell’influenza nei territori, è probabilmente stata sottovalutata dall’intelligence o, almeno, combattuta con le armi sbagliate. I continui raid dell’esercito nei campi profughi e nelle città non hanno fatto altro che dimostrare, grazie alla propaganda di Hamas e Jihad, che la loro risposta, la loro posizione era giusta. Radicalizzando sempre più.

Un governo di emergenza per Tel Aviv

Hamas infine ha operato la stessa strategia anche in casa e fuori Israele. Nel silenzio, ha preparato una operazione nei minimi dettagli. Sfruttando gli aiuti militari e logistici dell’Iran (anche se all’Onu il paese degli ayatollah si è detto estraneo alla cosa) e dei suoi sodali come Hezbollah, ha pianificato tutto nel minimo dettaglio. Con operazioni di disturbo nei giorni precedenti, atte a verificare lo stato del confine. Con operazioni nei territori e attacchi agli insediamenti, sfruttando la debolezza del ministro degli interni e della sicurezza Ben Gvir verso i suoi simili negli insediamenti, a difesa dei quali ha fatto dispiegare diversi militari, sottratti ad altro. Restando in disparte negli ultimi scontri e razzi dalla Striscia, lasciando il palcoscenico al Jihad islamico, facendo intendere di essere pronto aduno scambio di prigionieri, accettando aiuti in cambio di neutralità. Hamas ha dato una lezione di strategia, sfruttando anche la storia: era già successo negli stessi giorni cinquant’anni prima con la guerra dello Yom Kippur, era successo agli americani in Vietnam con Offensiva del Têt.

Cosa succederà ora è difficile dirlo. Hamas ha in mano oltre 100 ostaggi, e se con uno è riuscito a farsi dare indietro oltre 1000 suoi nelle carcere israeliane, è presumibile che punterà ad un alto prezzo. Prima dovrà però pagare: Netanyahu non può lasciare impunita la cosa ed è probabile una operazione di terra. Il premier ha dalla sua tutto l’arco politico, sta per nascere un governo di emergenza che non è detto non rimpiazzi in futuro quello in carica, spostando il baricentro eliminando i due coloni nel gabinetto. Certo è che qualcuno dovrà spiegare questo fallimento e la mancanza di informazioni. Se di mancanza stiamo parlando.

Foto di copertina EPA/HAITHAM IMAD

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