Ue sotto pressione: la strategia europea contro l’intimidazione di Trump

Sotto il tiro dell’intimidazione permanente di Trump la Ue cerca faticosamente di evitare quella che Agathe Demarais, analista dell’European Council on Foreign Relations, ha chiamato situazione di “naufragio geopolitico” contraddistinta da tre rischi: farsi prendere dal panico, dividersi, concentrarsi su obiettivi di breve termine. Se da un lato può non avere senso inseguire proprio tutte le minacce o le ricostruzioni fasulle che arrivano dalla Casa Bianca, come quella che vuole gli Stati Uniti “fregati” dall’Europa fin dall’inizio dell’unificazione continentale, dall’altro lato è evidente che il profluvio di prepotenze annunciate minimo stabilisce i contenuti dell’agenda politica bilaterale e globale sulla quale alleati (o ex alleati?), concorrenti e “nemici” dovranno volenti o nolenti misurarsi. Già sta avvenendo.

Che l’Unione europea e i suoi più importanti stati membri siano ancora sotto shock è evidente. Trump sta agendo con una velocità inusitata. Mentre reitera la volontà di instaurare dazi quale leva per farsi finanziare dai partner commerciali una reindustrializzazione forzata, ha innestato la marcia per indebolire le sedi sulle quali poggia il confronto politico globale, dal G20 al G7, dall’Organizzazione mondiale del commercio (qui l’indebolimento era cominciato sotto era democratica alla metà degli anni ’90) all’Organizzazione mondiale della sanità all’abbandono dell’accordo di Parigi sul clima. Con una serie ravvicinata di riunioni e vertici i massimi responsabili europei di governo stanno correndo ai ripari. Rilevanti sono l’impulso del cancelliere tedesco in pectore Friedrich Merz e il confronto ormai permanente della Ue con il Regno Unito, inevitabile per definire condizioni e impegni della sicurezza continentale, intimamente legati alla soluzione del conflitto in Ucraina.

Quattro gli obiettivi immediati, quanto effettivamente realizzabili si vedrà presto. Il primo obiettivo è non restare alla porta del negoziato tra Usa e Russia. Perché ciò accada occorre prendere delle decisioni in materia di difesa e sicurezza continentali (è il secondo obiettivo). È il momento delle “prime decisioni a beve termine”, ha indicato il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa convocando i Ventisette leader per il 6 marzo a Bruxelles: si tratta di passare dalle parole ai fatti in materia di finanziamenti in capacità militare e di definire di quali progetti europei si sta parlando (a partire dallo scudo difensivo comune). Per quanto riguarda la flessibilità dei conti pubblici ormai mancano solo i dettagli: le spese per la difesa saranno “scontate” dai calcoli per le procedure di deficit per diversi anni. Ci si aspetta anche un via libera all’uso dei fondi non utilizzati per i Pnrr (piani di ripresa e resilienza finanziati da debito comune), 93 miliardi di euro e sarebbe in dirittura d’arrivo anche la possibilità di utilizzo di fondi per la coesione. “Dobbiamo essere preparati a un contributo europeo alle garanzie di sicurezza che saranno necessarie per assicurare una pace duratura in Ucraina”, ha indicato Costa.

Tuttavia, una decisione sul ruolo militare europeo in Ucraina in termini di truppe e armamenti non è attesa a breve: i Ventisette sono sia divisi tra loro sia appesi all’indeterminatezza del futuro quadro di pace in Ucraina. La sola cosa chiara – anche se Trump non la pensa in tal modo – è che senza la garanzia di una effettiva deterrenza militare americana qualsiasi ipotesi sul ruolo europeo è considerata un buco nell’acqua. Non è chiaro se su difesa e sicurezza i Ventisette procederanno uniti oppure se dovranno ripiegare su una “coalizione di volonterosi” che assuma il carico militare della pace. Per scoraggiare la Russia, secondo il think tank di Bruxelles Bruegel l’Europa potrebbe aver bisogno di 300.000 soldati in più e di un aumento annuale della spesa per la difesa di almeno 250 miliardi di euro nel breve termine. La spesa per la difesa dovrebbe aumentare da circa l’attuale 2% del pil al 3,5%. Difficile farcela solo largheggiando sull’attuale spesa pubblica nazionale: a un certo punto il tema di finanziamento comune attraverso debito per la difesa comune, attualmente accantonato, andrà affrontato.
Il terzo obiettivo è reagire ai dazi commerciali quando saranno decisi: se l’Unione Europea è vulnerabile sugli scambi di beni (avendo registrato un surplus di 156 miliardi di euro nel 2023), gli Stati Uniti lo sono nei servizi (surplus a 108 miliardi di euro). La UE dispone di un nuovo strumento anti coercizione confezionato in realtà per fronteggiare la Cina, ma che si attaglierebbe perfettamente alle incursioni americane: serve a contrastare gli stati terzi che vogliono costringere l’Unione o i suoi membri a cambiare politica ed è ciò che sta accadendo con la ritorsione americana sull’Iva riscossa nell’Unione.

Il quarto obiettivo è tutto interno e riguarda due aspetti. Il primo aspetto è relativo alla difesa della UE come “macchina” della regolazione, come produttore di standard che date le dimensioni del mercato interno, influenza notevolmente il business globale. Attualmente le mosse americane contro la UE si configurano proprio come un attacco a tale funzione. Ciò risulta evidente nel settore dei servizi digitali e della protezione dei dati, sulla tassazione dei grandi gruppi digitali (per lo più americani). Dietro la difesa della “libertà di parola” su X o Facebook c’è la volontà di togliere gli ostacoli europei all’oligopolio digitale. Si vedrà presto se Bruxelles intende mantenere il punto con X di Musk e Google e gli altri big-tech oppure no. Nello stesso tempo, la “macchina” della regolazione europea deve quantomeno essere registrata, per molti aspetti si è inceppata. E qui si apre il capitolo delle debolezze: paradossalmente fanno più male gli ostacoli all’integrazione del mercato unico in termini di mancato risparmio di costi che non (in teoria) un’ondata di dazi commerciali. Un’altra debolezza cronica è la “fuga” di capitali di investimento verso gli Stati Uniti perché più attraenti o la fuga di imprese innovative dall’Europa che cercano finanziamenti – appunto – oltre Atlantico. Sono problemi che richiedono molto tempo per essere risolti.
Il secondo aspetto è una recente novità: la Commissione sta giocando la carta della semplificazione pro business per uscire dalle trappole dell’incertezza e della messa di lato negli affari e nella competizione globali. Sotto la pressione fortissima della maggior parte dei governi e di settori importanti dell’economia, Bruxelles ha varato il piano per il dimagrimento degli oneri che gravano sulle imprese: riguarda la rendicontazione sulla sostenibilità aziendale; il controllo delle catene di approvvigionamento (“due diligence” anche nei paesi terzi); la “tassonomia”, standard che definisce se una certa attività economica può essere classificata sostenibile ai fini dei finanziamenti pubblici e privati; la tassa sul carbonio all’importazione. La proposta di semplificazione in termini di riduzione degli oneri di informazione, tempi di verifica, esenzioni è di ampia portata ed è presto per delineare esattamente i confini tra semplificazione, appunto, e deregolazione.

La Commissione respinge al mittente l’accusa di voler tornare indietro sul “Green Deal”, ora rimodernato nello slogan “Clean Industrial Deal” (ecologia e industria non sono nemici). Circa l’80% delle aziende sarà escluso dai vincoli della direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale e circa il 90% sarà esentata dalla “tassonomia”. Dagli obblighi della tassa carbonio sulle importazioni saranno esclusi 182 mila importatori, in prevalenza piccole e medie imprese, pari al 90% del totale degli importatori, tuttavia vi resterà sottoposto oltre il 99% delle emissioni inquinanti. Gli esclusi sono responsabili di meno dell’1% dei volumi di importazione e delle relative emissioni. E non si torna indietro sugli obiettivi climatici, perché “danno la prevedibilità di cui l’industria ha bisogno per pianificare gli investimenti” (von der Leyen) e neppure sullo stop alla produzione di nuove auto a benzina e diesel dal 2035 pur promettendo flessibilità e pragmatismo all’industria dell’auto per arrivarci. A Bruxelles si gioca sull’accelerazione (che vuol dire in realtà recupero del ritardo accumulato) e sull’effetto fiducia che la politica e la normativa europee possono dare all’industria. Se ciò controbilancerà l’azione americana per attrarre, sotto minaccia di dazi, il trasferimento di produzione europee in terra americana è presto per dirlo.

Antonio Pollio Salimbeni

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