C’è molta aspettativa per il rapporto sulla competitività che Mario Draghi presenterà a fine giugno e servirà per il prossimo ciclo europeo dopo le elezioni (cioè dal 2025). Con ogni probabilità, è più di quanto si possa chiedere a un lavoro del genere. In cerca di una bussola per distinguere tra le numerose priorità quali sono quelle effettivamente più importanti, la Ue si affida alla credibilità e all’arguzia dell’ex banchiere centrale ed ex premier per definire meglio ciò che è già abbondantemente chiaro si debba fare: come tenere insieme i tanti fili rossi che legano capacità di crescita economica ben oltre gli “zero virgola”; recupero di una posizione competitiva che rifletta effettivamente i livelli di sviluppo tecnico e le dimensioni del mercato europei; raggiungere una “autonomia strategica” – ormai quasi diventato un buzzword del gergo politico – nell’energia, nella fornitura delle materie prime necessarie per realizzare gli obiettivi pro clima e la trasformazione digitale; difendere la dimensione industriale del continente. Più sicurezza e difesa, dimensione che costituisce la vera novità che l’Ue non può più considerare una semplice aggiunta a un lungo elenco.
Il rapporto sul mercato interno di Enrico Letta
Si parla meno del rapporto che sta preparando l’ex premier Enrico Letta sul mercato interno. A metà settembre, negli stessi giorni, ci sono stati l’annuncio della presidente della Commissione von der Leyen che Draghi avrebbe preparato il rapporto sul futuro della competitività europea con l’obiettivo di fare “tutto il necessario, costi quel che costi, per mantenere il proprio vantaggio competitivo” (si ricordi il draghiano whatever it takes dell’estate 2012 che stese la rete di sicurezza sull’euro e bastò solo l’avvertimento); e l’annuncio dell’incarico a Letta dalla presidenza Ue per produrre entro marzo 2024 una relazione di alto livello su mandato del Consiglio Europeo del giugno scorso. Stranezze bruxellesi, al limite della comprensione, riflesso di molta confusione ai piani alti delle istituzioni europee. Perché se c’è una cosa chiara è che “il mercato unico, uno dei più grandi e integrati del mondo, è al cuore della nostra competitività”, come è scritto proprio nelle prime due righe dell’ennesima relazione su mercato interno e competitività Ue pubblicato e metà febbraio proprio dalla Commissione.
Il rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi
A Draghi viene chiesto di produrre un’analisi e una valutazione dello stato delle cose presenti, dei rischi che corre la Ue se prevalesse un atteggiamento business as usual. Ormai è molto chiaro che non si tratterà solo di una robusta disamina fattuale dei divari competitivi di cui soffre l’Europa per limiti propri ma anche – occorrerebbe finalmente riconoscerlo – per capacità e non solo per la slealtà degli altri grandi concorrenti globali. D’altra parte, non è che si difetti in analisi, si difetta in chiarezza dell’agenda di lavoro e di effettiva coesione politica tra i governi nel realizzarla. Dunque, il rapporto Draghi si annuncia anche – e soprattutto – come una disamina delle opzioni per uscire dal vago e fissare i paletti di una strategia credibile. Una sveglia alla Ue, il cui suono è già arrivato a governi e parlamento europeo, si vedrà poi con quali risultati.
Le discussioni tra i ministri finanziari della settimana scorsa a Gent e Draghi hanno fatto luce su un aspetto decisivo della questione: la questione dei finanziamenti necessari per realizzare gli obiettivi strategici che sono tanto economici (doppia transizione verde e digitale) quanto politici (sicurezza e difesa). Il capitale pubblico, né quello di ogni singolo paese né quello condiviso a livello Ue, non è sufficiente a finanziare e/o attrarre capitali a fronte di una massa enorme di spese stimabile in diverse centinaia di miliardi di euro all’anno per 10-20 anni. Molti stati sono altamente indebitati e non possono indebitarsi ancora di più, anzi dovranno esserlo meno in un contesto in cui è sempre più difficile gestire le proteste sociali. Neppure basterà il capitale prestato attraverso il sistema bancario, dal quale le società non finanziarie europee restano prevalentemente dipendenti. Paradossale che nessuno rivendichi il valore della riforma delle regole di bilancio appena concordata, segno che per gli investimenti necessari si tratterà di un pannicello caldo.
Finanza e politica: un approccio europeo unificato
Occorre agire sugli investimenti e sul risparmio privato. La Francia prefigura un girone di serie A di paesi che unifica il proprio mercato dei capitali con il consenso volontario di banche e gestori di fondi, sotto supervisione unica, per offrire titoli di debito comuni con trattamento fiscale comune. Immediato il no tedesco. Il ministro francese Le Maire ricorda che il risparmio europeo vale 35 mila miliardi di euro, di cui circa un terzo “dormiente” in banca. L’anno scorso il deflusso finanziario netto dall’area euro è ammontato a circa 250 miliardi circa, il grosso diretto verso gli Stati Uniti, segnala la BCE. Si delinea il vero problema: attrarre il capitale privato nel finanziamento delle politiche europee, che si traducano in progetti di investimento, in spesa nazionale (anche nella difesa), dunque in produzione di beni comuni, in ricerca e innovazione. Cose che in Europa si fanno, ma adesso è la scala che cambia la natura delle cose.
La sfida della finanza diventa sfida politica e viceversa ed è proprio su questo intreccio che, con ogni probabilità, Draghi potrà dare indicazioni di lavoro di un certo spessore. Per ora si è limitato a indicare che assicurare denaro pubblico a livello Ue è uno dei fattori che farà la differenza. Ai ministri ha presentato fattualmente delle opzioni non necessariamente alternative: fondo speciale per finanziare investimenti pro competitività; prestito (come Next Generation EU); partnership pubblico/privato centrate sulla Banca Europea degli Investimenti. Evidente la sua preferenza per “un approccio europeo unificato”. A metà febbraio si è nuovamente pronunciato a favore dell’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti (“amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali”). Da tempo ribadisce come il vero rischio per l’Europa, “se non diventa un’unione più profonda, un’unione capace di esprimere una politica estera e una politica di difesa, oltre alla politica economica, non sopravviverà se non come mercato unico”. Che ve ne siano le condizioni politiche attualmente è un altro discorso. Dipenderà anche dall’aggravarsi o meno del contesto globale (guerre in corso, chi andrà alla Casa Bianca, relazioni con la Cina) e se si opterà per soluzioni “coraggiose”, termine ripetuto varie volte a Gent o a Bruxell es, ma non da tutti.