Il futuro di Gaza e il ruolo dell’Europa

È giusto interrogarsi sulle prospettive di pace fra Israele e i palestinesi dopo l’eliminazione (completa?) della minaccia terroristica costituita da Hamas, come fa ad esempio il PD in un articolo del suo responsabile Esteri Giuseppe Provenzano. Occorre però anche analizzare quei fattori che proiettano nel regno dell’utopia la visione di una nuova “Oslo”. Ma vediamo prima quanto è emerso in questo mese di conflitto armato circa le intenzioni dei vari attori.

Le conseguenze del conflitto

Israele ha disatteso il consiglio del Presidente Biden di evitare gli errori commessi dagli USA in risposta agli attacchi dell’11 settembre: non si è accontentato di limitate incursioni contro circoscritti obiettivi militari ma ha deciso di tagliare la testa al toro cioè annientare le infrastrutture di Hamas nel Nord della Striscia di Gaza ed espellerne la popolazione (forse non solo temporaneamente, ripetendo la Nakba del 1948). Ha rinunciato – vista la netta opposizione del Cairo – al progetto di svuotare tutta Gaza, riversando due milioni di palestinesi nel Sinai (viene alla mente il genocidio degli armeni, costretti nel 1915 a una marcia della morte verso la desertica estremità  orientale della Siria).

Dopo aver distrutto i depositi di armi e la rete di gallerie (su cui Hamas ha dirottato una parte consistente degli aiuti ricevuti dagli sceicchi), e creato zone cuscinetto, Israele intende sottoporre quanto resterà di Gaza a un regime analogo a quello che vige nella zona B della Cisgiordania (distretti popolati, ad esclusione delle città principali): autonomia amministrativa affidata all’ANP, ma la sicurezza nelle mani dell’esercito e dei Servizi israeliani.

Recuperare gli ostaggi è importante ma non prioritario, né urgente: non può frenare l’opera di “ripulitura” di Gaza. La proposta di una tregua (dopodiché Israele sarebbe libero di assestare il colpo finale a Hamas) in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi non è sincera. È da sempre evidente che Hamas ha tutto l’interesse a centellinare i rilasci, persino di bambini e di detentori di passaporti stranieri, per ottenere pause nei combattimenti, e tenere una parte degli ostaggi (almeno tutti i militari) per assicurarsi una carta negoziale ai fini dei salvacondotti per i propri uomini e della liberazione di migliaia di palestinesi di Cisgiordania carcerati in Israele.

Hamas ha dimostrato un cinico disprezzo per la vita dei propri civili (oltre che di quelli dell’avversario) con la provocazione del 7 ottobre, le cui conseguenze erano prevedibili, anzi programmate. E continua a farlo, lanciando razzi e attaccando le unità israeliane dai tunnel vicini o sottostanti agli ospedali, così da invitare nuovi bombardamenti. Si può discutere se usi sistematicamente i civili come scudi umani o consideri quelle vittime semplicemente come un costo inevitabile della Resistenza. In ogni caso è corresponsabile, con gli israeliani, dell’inferno in cui vivono e muoiono due milioni di palestinesi innocenti.

Il ruolo dell’Europa e dell’America

Gli americani continuano ad assecondare il rifiuto israeliano di una tregua, limitandosi ad auspicare pause umanitarie. E il Segretario di Stato Blinken si guarda bene dal “premere” in tal senso, usa prudentemente il condizionale: “faciliterebbero il negoziato sugli ostaggi e gli aiuti di emergenza”.

Non si capisce come lo scenario proposto da Blinken per il post-conflitto – la “twostate solution” con Gaza sotto la ANP – possa essere in buona fede. Washington non ha mai pensato di imporre a Israele di abbandonare gli insediamenti e accettare la creazione di uno stato indipendente che comprenda tutta la Cisgiordania e Gaza. E sa bene che estendere a Gaza la traballante autorità di Al Fatah sotto la guida di Abu Mazen, o anche di un suo successore più giovane, non è realistico. Anche ammesso che la drammaticità del conflitto e la necessità di un’intesa con gli stati arabi “moderati” imponga scelte coraggiose, in un anno elettorale Biden non si può permettere di storcere il braccio a Netanyahu. Il quale conta certamente sul ritorno di Trump alla Casa Bianca fra poco più di un anno.

Gli europei – giova ripeterlo senza mezzi termini – non hanno voce in capitolo. Israele assegna loro al massimo il compito di sostenere l’onere finanziario degli aiuti umanitari e della ricostruzione (riservandosi di tornare a demolire o bombardare, se del caso,  quelle case e scuole). Teoricamente, l’Unione Europea potrebbe tentare di favorire la causa della pace attraverso gli americani, raccomandando loro un atteggiamento meno compiacente verso Netanyahu. Ma questa strada è sbarrata dalla politica interna degli Stati Uniti, a maggior ragione – come testé ricordato – in un anno elettorale.

I responsabili della politica estera del PD e altri costruttori di pace sono consapevoli del fatto che la riesumazione del progetto di stato palestinese e la riunificazione di Cisgiordania e Gaza sotto l’ANP richiederebbero un regime change, rispettivamente,  a Gerusalemme e a Ramallah.

Nell’ipotesi più ottimistica, possiamo persino immaginare che il governo israeliano liberi Barghuti e altri detenuti molto popolari fra i palestinesi, che essi inaugurino una politica conciliante, che la popolazione palestinese volti le spalle a Hamas e accetti l’esistenza di Israele e una ANP rinnovata. Quello che è difficile immaginare – a meno di una guerra su più fronti con esiti catastrofici – è che gli elettori e la classe politica israeliana si decidano a mandare a casa la Destra con i suoi alleati suprematisti, a evacuare gli insediamenti e a rinunciare per sempre al grande Erez Israel promesso dalla Bibbia.

Per queste ragioni i piani di pace imperniati sui due stati sono ormai destinati a restare nel regno dell’utopia. Rimane da discutere la proposta di una forza di interposizione affidata ad alcuni paesi arabi accettabili per Israele, e dell’eventuale partecipazione di paesi europei, o della stessa UE.

foto di copertina EPA/OLIVIER HOSLET

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