In Medio Oriente, Biden corre sul filo del rasoio

Joe Biden sta correndo sul filo del rasoio nel tentativo di gestire il conflitto a Gaza, la più grave crisi mediorientale dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003.

Il presidente Usa ha individuato tre priorità: sostenere Israele; proteggere per quanto possibile i civili palestinesi, nel contempo resuscitando il defunto processo di pace; ed evitare l’allargamento del conflitto.

Il problema per Biden è che riconciliare queste tre priorità potrebbe essere impossibile.

Priorità #1: sostegno a Israele

Il sostegno a Israele, che Biden ha voluto esprimere di persona recandosi a Tel Aviv, implica una qualche forma di assenso all’obiettivo del governo israeliano di eliminare Hamas, il gruppo islamista responsabile dell’efferato attacco del 7 ottobre, quando circa 1400 persone, la maggioranza civili e senza distinzione di età, sono state assassinate.

L’eliminazione di Hamas richiede uno sforzo militare considerevole. Il gruppo islamista conta tra i 15 e 40 mila combattenti e si dev’essere preparato a un’invasione israeliana di terra. Sfruttando la rete di tunnel di centinaia di chilometri che si estende sotto Gaza, Hamas non può che puntare a impegnare le forze israeliane in una feroce guerriglia urbana in cui il loro vantaggio tecnologico e di armamenti verrebbe ridotto.

Priorità #2: proteggere i civili palestinesi

La campagna si preannuncia dura, sanguinosa e senza garanzia di successo. Questo è in netto contrasto con la seconda priorità di Biden, salvaguardare i civili e rilanciare la diplomazia israelo-palestinese. La campagna aerea di preparazione all’intervento via terra da parte di Israele ha già causato enormi perdite.

I palestinesi parlano di oltre 6500 persone uccise dai bombardamenti – in buona parte civili, oltre mille di loro bambini. Anche se impossibili da verificare, queste cifre sono realistiche. Le agenzie Onu presenti nella Striscia riportano centinaia di migliaia di sfollati e di circa un terzo di edifici distrutti a Gaza. A questo si aggiunge la crisi umanitaria, dal momento che Israele, che controlla l’accesso a Gaza (tranne il valico con l’Egitto a sud) ha tagliato i rifornimenti di combustibile, elettricità e cibo, e ridotto quelli d’acqua.

Una campagna di terra non può che peggiorare la situazione per i palestinesi, per i quali si prospetta la necessità di cercare rifugio altrove, anche se al momento Egitto e Giordania si oppongono nettamente ad accogliere campi profughi (è il caso di ricordare che poco meno della metà dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza è già composta da rifugiati).

Priorità #3: contenere il conflitto

In questo contesto, evitare la regionalizzazione del conflitto, la terza priorità di Biden, è oltremodo difficile. È vero che gli alleati di Hamas – segnatamente l’Iran e Hezbollah, il gruppo islamista che controlla il sud del Libano e il confine con Israele – non hanno un interesse a un coinvolgimento diretto nel conflitto. Per loro l’opzione migliore è vedere le forze israeliane subire forti perdite a Gaza in un’operazione che, già prima di cominciare, è destinata a erodere ulteriormente il supporto internazionale per Israele.

Tuttavia, se la campagna dovesse sfociare in un’espulsione di massa di palestinesi da Gaza o dovesse avvicinarsi all’obiettivo di distruggere Hamas, il calcolo di Iran e Hezbollah cambierebbe. Hezbollah e le forze pro-iraniane in Siria potrebbero aprire un fronte nel nord di Israele usando le loro dotazioni di razzi e missili (quelle di Hezbollah decisamente superiori a tutti gli altri gruppi armati). Lo spostamento di gruppi pro-iraniani verso il confine israelo-siriano e gli attacchi con droni di portata modesta subìti dalle forze americane nell’area negli ultimi giorni sono un ammonimento in questo senso.

Se gli Stati Uniti dovessero intervenire militarmente, allora l’Iran potrebbe attivare i suoi alleati in Siria, Iraq e Yemen per colpire obiettivi americani più duramente e mettere sotto pressione non solo Washington ma anche i governi arabi – da Giordania ed Egitto fino a Emirati e Arabia Saudita – perché frenino Israele. Che gli americani possano o vogliano farlo una volta che un secondo (e terzo, quarto…) fronte sia aperto contro Israele e le loro stesse forze nel Golfo è tutt’altro che certo.

Quale via d’uscita?

Difficile sul piano militare, costosissimo su quello delle perdite umane, ed esplosivo sul piano delle implicazioni regionali, il piano di eliminazione di Hamas soffre di un altro problema: non è collegato al momento ad alcuna strategia politica.

Se anche Hamas fosse messo fuori gioco, resta il problema di come amministrare Gaza, per cui non esistono soluzioni credibili: né una nuova occupazione israeliana, né un’Autorità Palestinese già screditata che verrebbe vista come un agente di Israele, né un’amministrazione da parte di paesi arabi, che non hanno incentivi (e nemmeno la capacità) per imbarcarsi in un’impresa del genere.

Alla luce di tutto questo, cosa effettivamente può sperare di conseguire l’amministrazione Biden?

È possibile che gli Stati Uniti stiano spingendo gli israeliani a privilegiare in questo momento il rilascio di quanti più ostaggi catturati da Hamas possibile e chiarire quali siano gli obiettivi militari dell’operazione di terra. Il punto è verificare se si possa tenere l’operazione sotto la soglia oltre la quale l’allargamento del conflitto diventerebbe un rischio intollerabile.

In sostanza, si deve star discutendo di un’operazione che abbatta le capacità militari di Hamas e risulti in un suo contenimento permanente, ma non necessariamente nella sua distruzione.

Questo implica anche che l’operazione da parte israeliana sia compatibile con la ripresa dei flussi umanitari a Gaza e la creazione di zone sicure per i civili.

Implica anche il vasto dispiegamento di forze nel Mediterraneo e nel Mar Rosso da parte degli Stati Uniti persuada l’Iran e Hezbollah ad accettare un ridimensionamento del loro alleato a Gaza. È plausibile che l’amministrazione Biden consideri interventi armati limitati, in rappresaglia contro eventuali azioni da parte degli alleati di Hamas, necessari a rafforzare il messaggio. Ma non è affatto detto che il messaggio passi.

Un’immane tragedia

L’azione diplomatico-militare di Biden è pertanto un esercizio di estremo equilibrismo. Se dovesse fallire, si materializzerebbe lo spettro di un conflitto generalizzato in Medio Oriente con costi umani che potrebbero essere nell’ordine di centinaia di migliaia e gravi tracimazioni di instabilità nelle aree adiacenti, nonché probabili effetti negativi sull’economia mondiale. Gli Stati Uniti si troverebbero trascinati in una guerra che non hanno pianificato e in cui hanno interessi strategici dubbi e comunque massicciamente inferiori a quelli di sconfiggere la Russia in Ucraina e gestire la competizione con la Cina.

Ma se anche il presidente Usa dovesse riuscire a contenere il conflitto, il rischio di altra violenza su larga scala sarebbe probabilmente solo rimandato. In assenza di un’iniziativa diplomatica di cui non si vedono al momento né condizioni politiche né soluzioni praticabili, la realtà di un conflitto incancrenito, in cui l’occupazione e la conseguente sistematica repressione di elementari diritti umani di milioni di palestinesi alimenta un radicalismo a cui Israele non può che rispondere con altra violenza, resterebbe inalterata.

Che questo sia l’esito in cui possiamo realisticamente sperare per evitare sviluppi più gravi ancora è forse la testimonianza più eloquente dell’immane tragedia della crisi mediorientale in corso.

foto di copertina EPA/JONATHAN ERNST / POOL

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