Mentre l’opinione pubblica globale è ormai abituata all’idea che le Forze armate ucraine siano rifornite dai partner internazionali di Kyiv, l’arrivo nell’arsenale russo di droni di produzione iraniana e il loro utilizzo contro obiettivi civili ha provocato particolare scalpore.
Il presidente ucraino Zelensky ha parlato di una “collaborazione con il male”, mentre Washington e il resto della comunità euro-atlantica hanno portato l’attenzione al fatto che il trasferimento di questo tipo di armi viola il divieto di export su alcuni prodotti militari imposto dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu su Teheran. Tutto ciò avviene in un momento particolarmente teso nei rapporti fra Iran e resto del mondo a causa delle proteste che stanno attraversando il Paese e della lenta agonia del negoziato per rilanciare il Jcpoa, l’accordo nucleare.
Sia Mosca che la Repubblica islamica negano che quest’ultima abbia fornito alcun sistema d’arma, anche se il portavoce del Cremlino Peskov sembra aver “mentito usando la verità” specificando che la Russia utilizza soltanto “equipaggiamento russo con nomenclature russe”. Ciò sarebbe compatibile con i numerosi avvistamenti di droni iraniani di tipo Shaded-136, che i russi sembrano aver ridipinto e rinominato Geran-2 a giudicare dai diversi rottami rinvenuti sul campo di battaglia nel corso dell’ultimo mese.
L’industria della difesa russa al palo
Possiamo solo speculare sul motivo per cui l’Iran abbia deciso di supportare lo sforzo bellico russo in maniera così plateale, seppur ufficioso. Le autorità ucraine riportano che tecnici iraniani sarebbero addirittura presenti in prossimità del fronte per supportare le truppe di Mosca, mentre fonti americane hanno confermato che diversi operatori russi sarebbero stati addestrati per settimane sul territorio dell’Iran.
Questo tipo di accordo va infatti ben oltre qualsiasi tipo di supporto ricevuto dalla Russia da altri partner internazionali, specialmente per quel che riguarda sistemi d’arma ad alta tecnologia. Ad aprile, il produttore di droni civili cinese DJI aveva ad esempio bloccato le proprie esportazioni verso la Russia proprio in risposta al giro di vite sanzionatorio imposto da Stati Uniti e Unione Europea.
Al di là del sistema delle “doppie esportazioni”, cioè l’esportazione di prodotti tecnologici venduti nelle repubbliche dell’Asia centrale verso il proprio vicino settentrionale, l’industria russa non dispone di un grande numero di componenti elettroniche per alimentare la produzione di sistemi come droni. La manifattura domestica è infatti ancora indietro di parecchi anni nonostante i 3,3 trilioni di rubli spesi dal 2015 per rendersi indipendenti dalle componenti occidentali.
Non sorprende quindi che la Russia stia cercando dove può soluzioni che le permettano di sopperire alle proprie limitazioni. Ciò che sorprende di più è che Mosca abbia optato proprio per lo Shaded-136. Lo Shaded-136/Geran-2 è infatti una munizione circuitante (loitering munition), cioè un “drone suicida” che opera schiantandosi contro un determinato obiettivo preimpostato. Anche se molti di questi droni sono dotati di un sistema di navigazione elettroottica, con cui l’operatore può guidare il velivolo nelle ultime fasi di volo, l’ordigno si affida soprattutto a un sistema di navigazione satellitare Gps (in alternativa, come è verosimilmente il caso in Ucraina, i sistemi iraniani possono anche utilizzare il Glonass russo).
Molte componenti dello Shaded-136 sono “a prova di sanzioni”, utilizzando a esempio un motore cinese MD550 derivato dal Limbach L550E tedesco. Questo provoca comunque degli inconvenienti: non trattandosi di un motore strettamente militare, il rumorosissimo cugino del vecchio motore del maggiolino Volkswagen é tutto fuorché discreto. In più, c’è il forte sospetto che molti esemplari utilizzino componenti elettroniche acquistate clandestinamente sul mercato civile globale, come prodotti Intel.
Guerra di massa e guerra di precisione
I russi non hanno, però, molta libertà di scelta. L’industria della difesa russa non ha generato grandi numeri di droni armati da combattimento, e nella categoria delle munizioni circuitanti l’ultima produzione di massa risale al FKR Meteor con potenziale nucleare e già schierato a Cuba durante la crisi dei missili. Attualmente, l’industria russa produce solo il Lancet e il Kub, entrambi prodotti dal gruppo Kalashnikov e caratterizzati da cariche esplosive abbastanza ridotte (3 chili contro i 36 dello Shaded).
Ciò è giustificato dal fatto che i russi non avevano, prima del 24 febbraio, alcun piano di sviluppo per armi adatte a combattere una guerra di lunga durata e ad alta intensità. Fino ad oggi, l’industria della Difesa russa ha soprattutto prodotto due tipi di sistemi d’arma: cannoni “classici” dedicati al supporto di grandi operazioni di terra o raffinati (e costosi) sistemi come il missile da crociera Kalibr, progettato per colpi ad alta precisione contro obiettivi strategici nelle retrovie come ponti e centri di comando. Insomma, i russi erano pronti a una “non contact warfare” fortemente tecnologizzata, come il dispiegamento aereo in Siria, o a una guerra industriale del ventesimo secolo: non a entrambe contemporaneamente.
I droni suicidi si posizionano in un segmento intermedio: pur essendo di lunga portata (il Geran-2 dovrebbe superare i 1.800 km) ed essendo relativamente precisi, essi sono dotati di una carica esplosiva di gran lunga minore rispetto a quella di un missile (26 kg contro i 450 kg di un Kalibr), che corrisponde più o meno a quello di tre proiettili di artiglieria da 155mm. In poche parole, non si tratta di un sistema adatto a infliggere danni irreparabili, anche se capace di distruggere mezzi blindati degli anni ’60. Un discorso diverso vale per altre munizioni circuitanti anticarro fornite da Teheran, il Mohajer-6, ma questi sembrano essere usati in misura ben minore.
Le conseguenze per i civili ucraini e la sostenibilità del fronte
Tuttavia, in virtù del loro scarso costo di produzione, questo tipo di drone permette di condurre il tipo di campagna di bombardamento continua contro obiettivi non rafforzati, come le infrastrutture civili. L’attuale intenso bersagliamento delle centrali elettriche ucraine, cruciali in vista dell’inverno, indica chiaramente l’adozione da parte di Mosca di una strategia che mira prima di tutto a colpire la popolazione. Questo è un riconoscendo della propria incapacità di rispondere in maniera simmetrica ai potenti sistemi forniti all’Ucraina e schierati al fronte, come l’artiglieria Himars di produzione americana.
In più, lo Shaded-136 pone i difensori di fronte a un vero dilemma: fino ad ora, Kyiv ha potuto proteggersi dalle centinaia di attacchi per mezzo di droni suicidi solamente facendo ricorso a missili terra-aria S-300 e a sortite della propria aeronautica. Ma queste tattiche sono un enorme spreco di risorse di fronte a un sistema d’arma pericoloso ma perfettamente sacrificabile.
Fra i Paesi Nato e Ue la ricerca in sistemi anti-drone sta muovendo i primi passi per affrontare in modo più efficace questo dilemma. Fino a quando anche gli ucraini non avranno un modo sostenibile per contrastare tale minaccia, fortemente potenziata dalle forniture iraniane, l’ago della bilancia militare continuerà a oscillare fra la costosa qualità dei sistemi dei difensori e la massa a buon mercato degli invasori, con un forte rischio per i primi di fronte a una campagna prolungata tramite droni kamikaze.
Foto di copertina EPA/SERGEY SHESTAK