Attacchi ai civili e inverno: le speranze di Putin

È oramai chiaro che l’aspettativa russa di svolgere un attacco rapido e “chirurgico” in Ucraina, con uso limitato di truppe, equipaggiamenti e consenso interno, ha lasciato spazio a un massacro su larga scala, contro i suoi stessi interessi, se non quelli della leadership di Vladimir Putin e con costi altissimi per la società russa.

Le difficoltà russe e la spirale di escalation

A fronte della riuscita controffensiva ucraina che sta portando alla liberazione di diversi territori conquistati dall’aggressore nella zona sud-est del paese, inclusa la città di Lyman nel Donetsk e parte della regione di Kherson, Vladimir Putin sta cercando disperatamente di rovesciare la situazione sul campo. Le ragioni esterne e interne di questa escalation sono qui strettamente connesse, per cui gli insuccessi militari in Ucraina e la tante testimonianze delle difficoltà dei soldati russi sul campo si legano a doppio filo alla credibilità della leadership militare russa e, in ultima istanza, anche a quella di Putin stesso.

Varie decisioni degli ultimi giorni rientrano in questo quadro: la serie di attacchi missilistici a target civili, la decisione di creare una forza regionale russo-bielorussa, la nomina di Sergei Surovikin a capo dell’operazione in Ucraina, e infine lo spauracchio dell’arma nucleare.

L’attacco ai civili: una precisa strategia destinata a durare?

Da un lato, i recenti bombardamenti a tappeto di luoghi civili per eccellenza, come parchi, università, non hanno solo la funzione di rappresaglia verso gli ucraini incolpati di aver causato l’esplosione del ponte che collega Crimea e Russia, ma sono parte di una strategia più ampia che già da tempo sta puntando e punterà sempre di più a colpire i civili per piegare la resistenza ucraina, a fronte delle difficoltà strategiche, operative e tattiche delle forze armate russe.

Dal punto di vista militare, questi attacchi non hanno migliorato né facilitato la capacità delle truppe russe di riconquistare i territori recentemente perduti ad Est a beneficio della controffensiva ucraina e, in alcuni casi, già dichiarati russi dopo i referendum farsa svoltisi nella regione. L’impiego di missili balistici a corto raggio e di missili da crociera al fine di colpire obiettivi civili appare infatti uno spreco, poiché sono costosi e in più produrli è molto dispendioso di tempo. Tutto questo in una situazione in cui le sanzioni occidentali colpiscono anche l’export di componentistica ad alto contenuto tecnologico verso la Russia, e dunque la capacità di Mosca di aumentare la produzione bellica o anche solo di manutenere gli armamenti esistenti. A ciò si aggiunge la difficoltà di reperire personale qualificato da impiegare sul campo, ma anche nella sforzo industriale di produzione bellica all’interno del paese.

Dopo l’aggressione del 24 febbraio, sfumata la fantasia della leadership russa di essere accolti nel Donbas a braccia aperte come salvatori, ci si è resi presto conto che la ferma resistenza della popolazione civile a difesa del proprio Paese fosse un fattore immateriale cruciale (storicamente lo è) e che contrasta con il morale basso dei soldati russi, inviati in fretta e furia a combattere con tanto di lacune logistiche, di equipaggiamenti e disorganizzazione.

È in questa bieca strategia di colpire civili che si inquadra la recente nomina di Sergei Surovikin, ex capitano dell’esercito sovietico e comandante del 1° battaglione fucilieri, a capo di tutta l’operazione in Ucraina, noto per utilizzare tattiche contro la popolazione in Siria, Cecenia e in Afghanistan. Si tratta anche di una mossa per tenere buona l’ala oltranzista della destra nazionalista russa, che sta accusando i vertici militari per gli insuccessi sul campo e mettendo sotto pressione Putin, impaziente di poter mostrare internamente qualche successo operativo.

L’alleanza con la Bielorussia

Anche la notizia della creazione di una forza regionale congiunta composta da soldati russi e bielorussi è in fondo un segno di difficoltà per la Russia. Il leader bielorusso Alexandr Lukashenko è stato infatti finora molto cauto nel non trascinare il proprio paese direttamente nel conflitto, pur avendo messo a disposizione il territorio bielorusso per l’offensiva delle truppe russe su Kyiv a marzo e per attacchi mirati verso l’Ucraina nel corso del conflitto, incluso quello di rappresaglia di questo lunedì. La “mobilitazione parziale” annunciata dal presidente russo a settembre sta procedendo lentamente, con difficoltà e intoppi ed è finora risultata in un’emorragia di migliaia di uomini in età da arruolamento che hanno lasciato o stanno cercando di lasciare il paese.

Questo ha reso ancor più evidente a Putin che non otterrà il numero di truppe desiderate nei tempi che sperava, minando dunque la sua strategia di compensare sul terreno operativo la qualità – strategica, operativa, tattica, e degli equipaggiamenti – con la quantità (o meglio, la superiorità numerica di soldati impiegati su quelli ucraini). È per questo che esercita pressione sull’alleato bielorusso per un coinvolgimento attivo delle forze di Minsk nello scontro, anche perché le minacce nucleari – e la ricerca dell’escalation da copione – stanno risultando in un sempre maggiore isolamento della Russia sulla scena internazionale. In questo quadro, Lukashenko è reduce delle proteste massicce del 2020 contro la sua leadership autoritaria e la decisione di mandare sul fronte soldati bielorussi a sostegno della Russia potrebbe costargli il delicato equilibrio interno.

Minsk dispone di un esercito di 60 mila unità e sta ammassando truppe alla frontiera con l’Ucraina in difesa da una presunta minaccia ucraina. Militarmente, questo serve a cercare di distogliere l’attenzione e le energie ucraine dal fronte est, dove Kyiv sta riconquistando importanti pezzi di territorio, spingendo gli ucraini a ricollocare parte delle truppe a Nord.

Le speranze di Putin in vista dell’inverno

In questo quadro complesso, Vladimir Putin vuole ribaltare sul campo il momento sfavorevole alla Russia per placare anche i malcontenti interni sull’andamento della guerra. Nel far ciò, conta su alcuni fattori che lo potrebbero favorire. In primis, spera in una divisione del nucleo dei paesi occidentali che sostengono l’Ucraina attraverso l’invio di armi.

Momento cruciale da questo punto di vista saranno a novembre le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, dove una possibile perdita della maggioranza al Senato dei democratici potrebbe favorire delle frange repubblicane contrarie all’invio di armi e al finanziamento di aiuti all’Ucraina. In secondo luogo, Putin spera che l’arrivo dell’inverno, la crisi energetica e le difficoltà ad esse connesse portino l’opinione pubblica europea a un livello di malcontento tale da premere sui propri governi per ritirare il proprio sostegno all’Ucraina per far cessare le ostilità. In terzo luogo, spera che l’inverno pieghi la resistenza della popolazione ucraina in una situazione in cui bombardamenti alle infrastrutture critiche costringeranno gli ucraini a condizioni durissime, senza luce, riscaldamento, gas.

La risposta dell’Occidente

Le democrazie europee hanno un debito con l’Ucraina. Cessare le ostilità oggi, come auspicano alcuni, sarebbe possibile solo con una resa dell’Ucraina, ma questo non riporterebbe la sicurezza né l’economia europee allo status ex ante e non risolverebbe la crisi energetica né le difficoltà a carico dei cittadini. Questa è un’illusione. Altre potenze come la Cina stanno studiando la risposta occidentale alla guerra e, sulla base di quest’ultima, stanno prendendo le proprie misure. Per questo in Ucraina gli alleati devono tenere il punto. La posta in gioco va molto oltre la sopravvivenza dell’Ucraina come stato e riguarda la sicurezza, la libertà, la democrazia europee per molti anni a venire. Alle mire imperialistiche di Vladimir Putin, gli europei devono invariabilmente rispondere: Not today.

Foto di copertina EPA/GAVRIIL GRIGOROV/SPUTNIK/KREMLIN / POOL MANDATORY CREDIT

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