L’annuncio del Cancelliere tedesco Scholz che la Germania punterà rapidamente a destinare il 2% del Pil alle spese per la difesa rappresenta una svolta storica per la difesa europea e una sconfitta strategica per il presidente russo Putin. È anche l’ennesima conferma dell’incertezza e, quindi, della difficilissima prevedibilità degli odierni scenari politici, economici, militari a livello nazionale ed internazionale. Pochissimi si aspettavano che il governo espressione dei partiti del centro-sinistra tedesco prendesse una decisione così delicata, e con effetti inevitabilmente dirompenti per l’Europa e per il mondo.
I numeri della Germania
Berlino oggi spende circa 45 miliardi di euro, pari al 1,5% del Pil nazionale, che sono, quindi, destinati a salire a quasi 60. La prima conseguenza è che la Germania diventerebbe la prima potenza militare europea e, con gli attuali livelli di spesa internazionali, la terza al mondo.
La seconda conseguenza è che molto probabilmente anche gli altri Paesi membri della Nato ancora lontani dalla soglia del 2%, concordata nel 2014 entro il 2024, dovrebbero avvicinarsi a questo obiettivo sia perché trainati in positivo dall’esempio tedesco sia per non rischiare di lasciare alla Germania un ruolo eccessivo nella difesa europea. Questo significa che, in prospettiva, l’insieme dei Paesi UE potrebbe arrivare a investire nella difesa circa 264 miliardi di euro all’anno contro gli attuali 198.
Le opportunità per l’Unione Europea
L’insieme degli Stati membri avrebbe quindi un nuovo livello di risorse per consentire all’Unione di perseguire l’obiettivo di autonomia strategica in un quadro di coesione transatlantica e occidentale. Di qui la necessità di attrezzare velocemente l’organizzazione politica e istituzionale UE perché la rinnovata forza militare dei suoi membri sia messa al servizio di un disegno politico-strategico condiviso, e di conseguenza, cresca in modo equilibrato nell’Unione.
In aggiunta al valore politico-simbolico per il processo di integrazione europea, da un punto di vista pragmatico non farlo sarebbe estremamente rischioso o, comunque, di dubbia o parziale utilità, perché senza autista anche un’ottima automobile non porterebbe da nessuna parte.
Il processo di integrazione europea procede da sempre e sui diversi fronti con velocità irregolare, lunghe stasi e improvvise accelerazioni. È la logica insita in ogni Unione di soggetti diversi che, al loro interno, cambiano in modi e tempi diversi. La condivisione con gli altri partner di fette di sovranità nazionale è il risultato della lungimiranza delle rispettive leadership, ma, soprattutto, delle crisi e degli stati di necessità che evidenziano l’impossibilità e impraticabilità delle soluzioni nazionali e la necessità di perseguire soluzioni comuni. E questo è tanto più vero in un mondo globalizzato segnato al tempo stesso da competizione e interdipendenza.
Nel giro di un biennio l’Europa si è trovata di fronte prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina. Nel mezzo ha toccato con mano le difficoltà del ritiro dall’Afghanistan. Se l’Unione avesse affrontato queste sfide dopo avere raggiunto un maggiore livello di integrazione politica e militare, i risultati sarebbero stati molto diversi e avremmo pagato un prezzo ben inferiore a quello che, invece, abbiamo dovuto e dovremo affrontare.
Questo è, in fondo, il vero costo della non-Europa della difesa che egoismi e sovranismi nazionali ci hanno regalato nel tempo, con l’inevitabile complice inerzia di istituzioni europee che fino agli anni 2000 sono state plasmate nel mito che il lato “civile” della medaglia poteva essere autosufficiente. La medaglia europea è, però, unica e nascondere o dimenticare il lato “militare” ci ha lasciati “disarmati” culturalmente, prima ancora che politicamente e militarmente.
In questi giorni sembra che, purtroppo a causa di una guerra che nessuno si aspettava di vedere in Europa, finalmente si sia voltato pagina.
L’obiettivo del 2% del Pil
Nel 2014, principalmente a causa di un’altra guerra russa in Ucraina ed in particolare in Crimea, i Paesi Nato avevano concordato di investire il 2% del loro Pil nella difesa. Il duplice senso di questo impegno era stato, ed è, quello da un lato di omogeneizzare la suddivisione degli oneri della difesa e sicurezza collettiva fra gli alleati, dall’altro di aumentare la spesa complessiva, soprattutto grazie all’aumento da parte di alcuni Paesi con il Pil maggiore, come la Germania e, in parte, l’Italia.
Per assicurare che l’aumento di bilancio si traducesse in un effettivo incremento delle capacità militari, si era contemporaneamente fissato un secondo obiettivo, quello di spendere il 20% di tale bilancio per gli equipaggiamenti. Quindi un doppio parametro, quantitativo e qualitativo, per far fruttare l’investimento statale in quel bene pubblico che è la sicurezza nazionale ed internazionale.
Anche per questo l’Italia, insieme ad altri partner, insiste da tempo per valutare lo sforzo a favore della difesa e sicurezza comune, considerando tutte le ‘tre C’ adottate come parametri in ambito Nato: Contributions, Capabilities e Cash. Quanto al primo parametro, l’impegno italiano nelle missioni internazionali vede, infatti, da sempre il nostro Paese fra quelli più attivi in ambito Nato, Ue e Onu. Anche sul piano degli investimenti, soprattutto nell’ultimo biennio, l’Italia ha avviato importanti programmi per l’ammodernamento degli equipaggiamenti in servizio, ed ha stabilmente superato la soglia del 20% per gli equipaggiamenti. Siamo, invece, rimasti indietro sul livello della spesa militare.
Il criterio della quota di Pil come parametro per misurare le capacità militari di un Paese è sicuramente grossolano, ma è il più semplice ed è quello che si è concordato in ambito Nato. Per questo è necessario che anche l’Italia vada rapidamente a rispettare questo impegno preso a suo tempo anche da Roma.
Come investire bene le nuove risorse
La forte accelerazione degli investimenti europei per la difesa rappresenta un’opportunità unica per rafforzare il processo di integrazione UE in campo militare.
Un impiego ottimale andrebbe gestito su tre linee direttrici. In parte le nuove risorse dovrebbero migliorare l’addestramento delle unità e la manutenzione dei mezzi, in modo da avere una più pronta capacità operativa ed uno strumento militare più efficace ed efficiente. Una parte deve essere oculatamente impiegata sul lato del personale, non tanto per migliorare i livelli retributivi, quanto per intervenire strutturalmente sul mercato del lavoro, in modo da creare in tutti i paesi una reale ed efficace permeabilità tra il mondo militare e quello civile; lo scopo è quello di offrire ai giovani che si arruolano reali prospettive di impiego dopo il congedo per rendere più appetibile l’arruolamento ed evitare poi che si verifichi il deleterio fenomeno del progressivo innalzamento dell’età media del personale, con le inevitabili conseguenze sull’efficienza dello strumento militare nel suo complesso.
Una parte cospicua dei nuovi fondi andrà, però, ai programmi di ricerca e sviluppo tecnologico e alle acquisizioni di equipaggiamenti. Gli eventi di questi giorni ci dicono che, in particolare per le forze di terra, le capacità classiche “pesanti”, che sembravano archiviate a favore di capacità più agili, utilissime nelle operazioni avviate negli ultimi 30 anni, sono tuttora necessarie, a fronte di minacce come quelle che la Federazione Russa sta portando all’Ucraina: quindi non si devono trascurare, ad esempio, forze corazzate, artiglieria pesante e semovente, elicotteri da combattimento.
In tutto il mondo si stanno sviluppando nuove generazioni di sistemi d’arma adatti all’esigenza dell’approccio multi-dominio e dell’informatizzazione sempre più spinta. Questo salto tecnologico richiederà, però, alcuni anni. L’investimento in questo salto generazionale va aumentato in Europa, per competere con rivali sistemici come Russia e Cina e per mantenere l’interoperabilità con l’alleato americano.
Il problema della frammentazione
Vi sono, però, limiti obiettivi alle capacità di ricerca e sviluppo disponibili. E, d’altra parte, tutti i Paesi hanno anche esigenze militari da soddisfare nel breve periodo. Di qui un’inevitabile spinta ad acquisire equipaggiamenti sì più moderni, ma rapidamente o già disponibili sul mercato. E questo per gli stati europei significa ricorrere a prodotti nazionali (quando possono) o esteri, compresi quelli non europei. Non va, infatti, dimenticato che fino ad ora solo l’11% degli acquisti militari è stato rivolto a programmi europei di collaborazione, un livello che scende ulteriormente al 6% per il finanziamento dei programmi di ricerca e sviluppo.
Qui è forte e grave il problema della frammentazione. La scelta di acquisire prodotti nazionali o comprati “chiavi in mano” al di fuori dell’Europa porterebbe ad aumentare la disomogeneità degli equipaggiamenti in servizio nelle forze armate nel UE, a danno della loro interoperabilità, efficacia ed efficienza, in termini sia di operazioni che di logistica, manutenzione e aggiornamento.
Tale frammentazione su base nazionale costituirebbe, inoltre, un freno all’acquisizione dei prodotti europei che saranno sviluppati nei prossimi anni grazie alla spinta dell’European Defence Fund.
Un’ulteriore conseguenza negativa sarebbe quella di danneggiare la spinta alla razionalizzazione della base industriale europea che sarebbe, invece, favorita solo dai programmi comuni. Da ultimo, verrebbe rallentata la realizzazione dell’interdipendenza fra i maggiori paesi produttori europei, necessaria per passare dalla logica della sovranità nazionale a quella di una sovranità europea condivisa, superando gradualmente preoccupazioni e gelosie con cui, altrimenti, bisognerà continuare a confrontarci per molto tempo.
La soluzione dei programmi europei
La soluzione sul piano degli equipaggiamenti dovrebbe essere rappresentata da una chiara connotazione europea nell’impiego delle nuove risorse disponibili, privilegiando i programmi Ue di ricerca e sviluppo tecnologico e i prodotti frutto di cooperazione intra-europea disponibili o più rapidamente realizzabili, tenendo sempre conto della necessità di non impattare troppo negativamente su quelli che arriveranno alla fine di questo decennio.
Tutto questo avrà senso solo se contemporaneamente l’Unione europea recupererà il tempo perso sul piano politico e istituzionale e, in parte, militare. Solo attrezzandosi per gestire un’effettiva politica europea di sicurezza e difesa, anche sul piano giuridico oltre che istituzionale, si potrà garantire che il nuovo impegno finanziario venga canalizzato a favore dell’Europa e di una più efficace ed effettiva capacità di difendere i propri interessi e valori, i suoi cittadini e il suo territorio.
Foto di copertina EPA/SASCHA STEINBACH