Un po’ di chiarezza sul dossier Albania: parla Chiara Favilli

La professoressa Chiara Favilli è ordinaria di Diritto dell’Unione europea all’Università di Firenze. Vi proponiamo il testo dell’intervista realizzata nella trasmissione “Spazio Transnazionale” di RadioRadicale.

In questi giorni, il battito sull’immigrazione nel nostro Paese è un po’ confuso. Partirei dalle ordinanze del tribunale di Roma e sul loro impatto, poi sull’implementazione del protocollo Italia-Albania.

Partiamo dal presupposto che i richiedenti protezione internazionale non devono essere detenuti, privati della libertà personale. Salvo quando provengono da un paese sicuro, ci siano poi altri presupposti che inducano il questore a ritenere che ci debba essere la detenzione e non ci siano misure alternative alla detenzione. Quindi la detenzione è un’eccezione. Invece, tutti i richiedenti protezione internazionale che vengono trasferiti in Albania devono necessariamente essere detenuti: non c’è un’alternativa di trattenimento e di accoglienza in Albania; o sei detenuto o non sei detenuto. Ecco, quindi, che scatta necessariamente la richiesta di convalida, perché il trattenimento è un provvedimento del questore che deve essere convalidato dal giudice in base all’articolo 13 della Costituzione, e i giudici della sezione di Roma non hanno convalidato perché il presupposto della detenzione, come dicevo prima, è la provenienza da un paese sicuro.

Per qualificare un paese come sicuro, qui si fa molta confusione: si pensa che ci sia molta discrezionalità, invece è tutta una discrezionalità tecnica. Ci sono dei requisiti previsti nella direttiva 2013 n.32, e gli stati devono attenersi a questi requisiti. Quindi, non è che basta l’etichetta di “paese sicuro” per diventare sicuro; io sono mora, non è che basta che mi dicano che sono bionda per diventare bionda. Quindi ci vuole la sostanza, bisogna che lo stato sia effettivamente sicuro. I giudici di Roma non hanno rinvenuto questo requisito della sicurezza, che deve essere stabilito dal governo, ma sempre accertato dal giudice. Lo ha fatto il tribunale di Roma, dopo che lo avevano già fatto anche altri giudici a Catania, a Palermo, e prima ancora a Firenze. L’argomentazione di base è che la direttiva dell’Unione Europea prevede che gli stati possano essere qualificati come sicuri, senza però distinguere parti del loro territorio o categorie di persone; vale a dire: o l’Egitto è sicuro tutto o non è sicuro. Non è che se è sicura la capitale allora si può ritenere l’Egitto sicuro solo per la capitale. Lo stesso vale per le categorie di persone: non si può sostenere che l’Egitto sia sicuro, ad eccezione che per le donne o per le persone omosessuali, e via dicendo. La direttiva del 2005 prevedeva queste eccezioni; quella del 2013 le ha espressamente escluse, abrogate.

Il 4 ottobre, la Corte di giustizia dell’Unione Europea, su richiesta di un altro giudice della Repubblica Ceca, aveva affermato proprio questo, che è anche abbastanza ovvio: la direttiva non lo prevede e quindi i giudici hanno applicato la direttiva come interpretata dalla Corte di giustizia, e hanno ritenuto che quel presupposto della nozione di “paese sicuro” non si potesse applicare. Viene meno, quindi, tutta la procedura, perché, mentre in Italia i richiedenti di protezione internazionale rimangono anche se non vengono detenuti perché non c’è il presupposto di paese sicuro, in Albania non ci possono rimanere perché non c’è alternativa alla detenzione.

Nella critica alla decisione dei giudici, più esponenti politici hanno sostenuto che le direttive europee non sono direttamente applicabili, quindi non possono prevalere sulle leggi nazionali. Possiamo fare chiarezza su questo?

Sì, le direttive non sono direttamente applicabili ma producono effetti diretti. Questo vuol dire che, siccome vincolano lo Stato ad attuarle, lo Stato deve sempre rispettarle. Gli effetti diretti significano che una persona può far valere la direttiva contro lo Stato: il vincolo, l’obbligo che grava sullo Stato, grava sempre. Questo è il punto, l’ambiguità, ed è un principio, anche questo molto ovvio e ormai ampiamente ribadito da quasi cinquant’anni; quindi davvero parliamo dell’ovvietà.

Abbiamo visto tantissimi casi. Pensiamo anche alle concessioni balneari: si basano proprio sull’efficacia diretta di un articolo della direttiva, quando questo è chiaro, preciso, e incondizionato, lo Stato è obbligato; non può trincerarsi dietro il fatto che la direttiva non è direttamente applicabile. È vero, non è direttamente applicabile, ma produce comunque effetti, e non ci si può sottrarre all’applicazione dell’obbligo. Tanto più che la nozione di “paese sicuro” — quella che lo Stato fa valere — in Italia è stata introdotta proprio in virtù della direttiva. Nel momento in cui lo Stato afferma che non si può applicare la direttiva perché non è produttiva di effetti diretti, praticamente nega anche la nozione di”paese sicuro”, paradossalmente. È da lì che deriva, non è che la nozione di “paese sicuro”deriva dal nostro ordinamento. Anzi, fino al 2018, tutti i governi avevano ritenuto che non fosse conforme all’articolo 10 della Costituzione, perché la nozione di “paese sicuro” è una presunzione di sicurezza, una presunzione che quindi cambia completamente l’impostazione della procedura amministrativa di richiesta di protezione internazionale. È un’eccezione, ecco.

Ancora una curiosità. Il Consiglio dei Ministri ha risposto all’intervento dei giudici, varando un nuovo decreto e modificando la lista dei Paesi di origine sicuri. A suo avviso, questo sarà sufficiente per superare gli ostacoli giuridici?

No, non è sufficiente. Certo, la fonte cambia, quindi cambia anche l’apprezzamento che faranno i giudici, ma non rispetto alla possibile non applicazione del decreto legge o della legge. Infatti, quando la norma è in contrasto con un obbligo che deriva dall’Unione Europea, il giudice può sempre disapplicare, anche se si tratta di una legge. Questo non cambia in nessun modo il potere di sindacato del giudice.

Poi, è stato definito il decreto legge come norma primaria; io revocherei la laurea in giurisprudenza a chi l’ha detto, perché la norma primaria è la Costituzione, prima ancora del diritto dell’Unione Europea. Certo, cambiando la fonte, si dovrebbe ragionare sul caso di una legge-provvedimento: quello che prima era ritenuto regolabile attraverso un regolamento, ovvero un atto amministrativo, adesso viene regolato attraverso una legge.

Qui, davvero, c’è, secondo me, un vulnus all’astrattezza della legge, ma non voglio andare troppo nel tecnico. Certo è che abbiamo un cambiamento della fonte, che però non cambia — questo è chiarissimo e mi sorprende che se ne discuta — il potere del giudice di non applicazione. Di fronte a una legge, il giudice potrebbe anche decidere di sollevare una questione di legittimità costituzionale, che invece non può fare su un regolamento. Ma non è obbligato a farlo.

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