Se Biden frena sull’Ucraina nella Nato

“Zelensky ha capito che essere membro della NATO ora non è così rilevante”. È la convinzione espressa dal presidente americano Joe Biden poco prima di lasciare il vertice dell’Alleanza a Vilnius. Un modo anche per rivendicare la sua capacità di persuasione nei confronti del presidente ucraino.

Eppure, non erano mancati, nei giorni precedenti, accorati appelli di numerosi esperti e militari americani per una rapida entrata di Kyiv della Nato: unica misura, avevano sostenuto, atta a garantire la sicurezza dell’Ucraina. Lo stesso ex-segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, aveva chiesto che si adottasse questa decisione già a Vilnius o, al più tardi, tra un anno, al Vertice in cui si celebreranno i 75 anni dell’Alleanza. Secondo quanti avrebbero voluto una via libera all’ingresso dell’Ucraina già a Vilnius, quest’ultima, peraltro, già soddisferebbe i requisiti essenziali per diventare un membro dell’Alleanza.

Biden fra ardore atlantista e calcoli strategici

C’è una questione cruciale, però, su cui i fautori di un rapido allargamento della Nato all’Ucraina hanno perlopiù sorvolato: come si concretizzerebbe, nel caso di un’adesione all’Ucraina, l’impegno alla mutua difesa – previsto dall’Articolo V del trattato dell’Alleanza – nel contesto dell’attuale guerra di aggressione della Russia. Un quesito non da poco, considerato che gli alleati hanno più volte ribadito di non voler impegnare le proprie forze nel conflitto, per evitare uno scontro diretto con Mosca (che rischierebbe di sfociare, secondo ripetute dichiarazioni di vari esponenti dell’amministrazione Usa, nella “terza guerra mondiale”). Una mancata applicazione dell’Articolo V getterebbe evidentemente un grave, e forse irrimediabile, discredito sull’Alleanza.

Di tutto si può accusare Biden tranne di non essere un sincero atlantista. Lo è certamente di più dei suoi tre predecessori. Gli va riconosciuto di aver contribuito non poco al rilancio del ruolo dell’Alleanza dopo gli anni tormentati di Donald Trump. L’ultimo successo, la caduta del veto turco all’entrata della Svezia – un colpo durissimo per Mosca dopo l’allargamento alla Finlandia – porta la sua impronta.

Sotto questo rispetto, il Vertice di Vilnius è stato, per il presidente americano, un notevole successo diplomatico e di immagine, che potrà forse sfruttare anche nella campagna presidenziale. La speranza, inoltre, è che varie decisioni prese a Vilnius, compreso il rafforzamento della presenza militare nell’Europa centro-orientale, complichino eventuali tentativi di Trump, se vincesse nuovamente le elezioni, di rimettere in discussione gli impegni Usa nell’Alleanza.

I test per l’Ucraina

Il freno di Biden sull’entrata dell’Ucraina nella Nato non scaturisce quindi da un tiepido afflato atlantista, ma, all’opposto, dall’intento, basato su un lucido calcolo strategico, di evitare che l’Alleanza finisca in un vicolo cieco, o prenda impegni cui in realtà non vuole, o non è in grado, di dar seguito. Basti la considerazione che nessun alleato ha chiesto, o chiede, che si riveda la scelta di non intervenire direttamente nella guerra.

A Vilnius si è così concordato di rinviare ogni decisione sui tempi e modi dell’entrata dell’Ucraina a dopo la fine del conflitto, con tutte le incertezze che questo implica.

Non è stata neppure accolta la richiesta di Zelensky che si definisse almeno una tabella di marcia (roadmap) verso l’ingresso nell’Alleanza. A prevalere è stata la convinzione, espressa a chiare lettere da Biden, che Kyiv “non è ancora pronta”. Prima dovrà dare garanzie su alcuni fondamentali parametri riguardanti in particolare il suo assetto istituzionale e lo Stato di diritto (compresa la lotta alla corruzione).

Una serie di misure adottate dal governo ucraino per consolidare la coesione nazionale di fronte all’aggressione russa – compresi i poteri eccezionali attribuiti al governo e la limitazione della rappresentanza politica – dovranno essere revocate. Ci vorrà quindi tempo – verosimilmente diversi anni – anche dopo la fine della guerra.

Sostegno militare e garanzie di sicurezza

Nel frattempo, quel che conta, ha giustamente sostenuto Biden, sono gli “impegni concreti” che gli alleati si sono assunti per sostenere l’autodifesa di Kiev. Il sostanziale pacchetto di nuovi aiuti militari annunciati a Vilnius è un successo per Zelensky. Né è meno importante che, di fronte alle considerevoli difficoltà che sta incontrando la controffensiva in atto, non s’intravvedano al momento segni di fratture o ripensamenti in seno all’Alleanza.

I legami tra l’Ucraina e la Nato escono, in realtà, notevolmente rafforzati dal Vertice di Vilnius. Certo, il sostegno militare continuerà ad essere deciso bilateralmente, dai singoli Paesi. Le strutture dell’Alleanza non vi saranno direttamente coinvolte. Ma fra gli alleati, e anche nel formato più ampio del “Gruppo di Contatto per la Difesa dell’Ucraina”, cui aderiscono più di 40 paesi, non manca il coordinamento politico e operativo. Per questo non ha senso fare un parallelo con il fallimentare Vertice di Bucarest del 2008. Anche lì, come a Vilnius, si decise soltanto che l’Ucraina sarebbe, prima o poi divenuta, membro nell’Alleanza, senza specificare tempi o modalità dell’entrata.

A Bucarest Kyiv fu lasciata nel limbo per quanto riguarda la cooperazione militare: una scelta disastrosa, la peggiore che si potesse fare. Nella capitale lituana, al contrario, sono stati prese decisioni concrete e impegnative a sostegno di Kyiv. Decisioni che, fra l’altro, favoriranno un’ulteriore armonizzazione fra le forze armate ucraine e quelle dei paesi alleati, premessa indispensabile per l’ammissione nell’Alleanza, quando anche le altre condizioni saranno soddisfatte.

Per le garanzie di sicurezza da offrire a Kyiv si procederà bilateralmente, sulla base dei parametri “giuridici e costituzionali” dei singoli paesi. È quel che hanno dichiarato anche i leader del G7 all’indomani del Vertice di Vilnius. L’impegno è avviare da subito negoziati per la definizione degli impegni e accordi bilaterali di sicurezza, sul modello della partnership di sicurezza tra Usa e Israele. Collettivamente, i paesi del G7 hanno promesso “nel caso di un futuro attacco armato” a “consultarsi immediatamente con l’Ucraina per determinare i prossimi passi”.

Ma cosa accadrebbe, a conflitto in corso, di fronte a un’ulteriore escalation dell’aggressione russa, per esempio se Mosca decidesse di usare l’arma nucleare? Ci sarebbe, certo, una reazione collettiva, ma è probabile che le misure più dure sul piano militare verrebbero prese dagli Usa singolarmente, o con un gruppo ristretto di paesi alleati.

L’inevitabile dialettica con Kyiv

Alla luce di quanto detto, si possono svolgere tre considerazioni generali. In primo luogo, gli alleati appaiono risoluti a sostenere l’Ucraina “fino a quando sarà necessario”, ma non sono disposti a farsi dettare l’agenda da Kyiv. E ciò varrà, a maggior ragione, per lo scenario post-conflitto e per gli eventuali accordi di pace. Il governo ucraino avrà una decisiva voce in capitolo, in particolare sulle sistemazioni territoriali, ma peseranno anche le preoccupazioni strategiche occidentali. Una dialettica non semplice, come si è visto anche a Vilnius, che si riproporrà nei prossimi mesi, e metterà alla prova la capacità di leadership tanto di Kyiv quanto dei paesi alleati.

In secondo luogo, la disputa sull’entrata dell’Ucraina nella Nato ha mostrato, una volta in più, che non è facile e neppure raccomandabile, che le regole su cui si basano le istituzioni multilaterali siano accantonate in nome di (presunti) imperativi geopolitici. Tali regole sono essenziali per garantire la coesione interna e la credibilità delle istituzioni e del sistema multilaterale nel suo complesso. Stupisce che convinti sostenitori del multilateralismo sembrino talora dimenticarsene. Nel caso dell’Ucraina, poi, anche le ragioni strategiche che spingerebbe a una sua rapida entrata nell’alleanza, sono, come si è visto, molto discutibili.

Infine, occorre prendere atto che nella stato attuale del conflitto, che è gravido di incognite, incluso il rischio di un’escalation, si potrebbero presentare contingenze nelle quali non sarebbe facile per i membri della Nato, date le divergenze esistenti, adottare efficaci risposte collettive. Non è dunque affatto escluso, specie se si trattasse di misure militari, che la responsabilità ricada sugli Usa e pochi altri alleati. In quel caso, sarebbe comunque importante che questi ultimi potessero contare sul più ampio sostegno politico, almeno da parte di consessi influenti, ma ristretti, come il G7.

Foto di copertina ANSA/CHIGI PALACE PRESS OFFICE/FILIPPO ATTILI

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