La mia Africa: 2024, un grande test democratico

La popolazione dei paesi in cui si terranno le elezioni nel 2024 ammonta a 4,1 miliardi di persone, il 51% della popolazione. In Africa, sono previste numerose consultazioni elettorali, regolari o anticipate, tra cui nove elezioni presidenziali.

La competizione tra diversi modelli politici è in corso su scala globale. Essa non contrappone più regimi comunisti o socialisti a regimi capitalisti, il libero mercato a un’economia pianificata: ora si tratta di democrazia. La democrazia è minacciata sia dal neoliberismo che dal nuovo autoritarismo, sia esso populista o nazionalista. L’Africa è uno dei teatri chiave di questo confronto. In questo continente si verificherà la pertinenza delle analisi che, sempre più spesso, parlano della “fine della democrazia”.

Liberia e Egitto rappresentano due delle ultime tre elezioni presidenziali del 2023 (con la Rdc a fine anno) che si saranno svolte agli estremi opposti dello spettro democratico. Da un lato, un’autentica alternanza, dove il vinto, l’ex calciatore Weah, ha salutato la vittoria del vincitore. Dall’altro, un rito politico formale al servizio della perpetuazione del potere di un solo uomo, Abdel Fattah al-Sisi.

Lo scenario politico-elettorale dell’Africa

Sotto questo punto di vista, come si presenta lo scenario politico-elettorale nel 2024?  È la domanda posta dal settimanale “Jeune Afrique” nella sua edizione di fine anno. L’interrogativo riguarda molti paesi del continente che andranno alle urne quest’anno, “segno di una certa pietrificazione del panorama democratico”, nota il giornalista Francois Soudan: “dovrebbero nuovamente coesistere consultazioni aperte e votazioni con risultati predeterminati”.

Un minimo di suspense elettorale si verificherà in Senegal, Ghana e Mozambico, dove i presidenti in carica rispettano la Costituzione non ripresentandosi. Scenario incerto anche in Sudafrica, un peso massimo della democrazia, dove le elezioni generali di aprile potrebbero segnare la fine del dominio assoluto dell’African National Congress (Anc), il partito di Mandela. D’altra parte, non occorre essere un abile indovino per sospettare che l’alternanza non ci sarà in Ruanda, Tunisia, Algeria, Mauritania, Togo o nelle Comore, tutti paesi dove, per varie ragioni (e con tutti i tipi di mezzi), il panorama politico è sigillato e rigidamente impermeabile al cambiamento di leader e di regime. Sarà quindi soprattutto il tasso di astensione che permetterà di misurare il disincanto dell’elettorato e la conseguente crisi di rappresentatività, che andrà monitorata.

In generale, quasi ovunque, si registra quindi una frustrazione  collettiva dei popoli, laddove, ancora una volta, invece di trovare soluzioni puntuali e adatte ai vari contesti, la leadership africana ha optato per il mimetismo istituzionale espresso attraverso la mera meccanica del voto.

Occorre, quindi, archiviare gli entusiasmi esagerati dei processi di democratizzazione che non hanno portato democrazia ma democrature” pressoché ovunque, persino nel Senegal. Organizzare elezioni, avere formali istituzioni scimmiottate da modelli extra africani, imitare modelli autocratici cinesi o russi, non rispettare la libertà di stampa, rendere eterna la permanenza al potere, mettere la museruola agli oppositori, clochardizzare un intero popolo nelle città e nelle campagne non significa democratizzare l’Africa.

Trentaquattro anni di inganno democratico (1990-2024) devono cessare. E, nella loro complessità e ambiguità, i colpi di Stato evidenziano la stanchezza e la delusione dei popoli nei confronti di questa parodia di democrazia dell’uomo solo al comando. È necessario, dunque, ripartire da zero con l’affermazione solenne che non c’è democrazia senza l’accesso di tutti ai beni essenziali. Basic needs are basic rights deve diventare il motto dei processi della nuova democratizzazione del continente. E questa scelta la devono fare gli africani, senza l’alibi del cattivo colonizzatore che opprime. La democrazia, prima restituisce condizioni di vita decenti alla maggioranza, poi cerca le vie istituzionali per la partecipazione e la gestione del potere.

I decenni perduti della possibile democratizzazione

La questione istituzionale e della natura dello Stato resta sullo sfondo, secondo il filosofo e politologo camerunese Achille Mbembe. È possibile riformare lo Stato ereditato dalla colonizzazione e le sue istituzioni in modo tale che contribuisca, in modo decisivo, alla formazione della ricchezza di cui l’Africa ha bisogno e allo sviluppo dei diritti e delle libertà delle sue comunità e dei suoi cittadini? Quali teorie del cambiamento potrebbero meglio servire da base per un simile compito storico e chi sarebbero gli attori preferiti?

Queste erano le grandi domande al centro del dibattito africano durante l’ultimo quarto del XX secolo, secondo Mbembe. A quell’epoca, la maggior parte degli Stati del continente attraversava una grave crisi, non solo economica ma anche di legittimità e di riproduzione. I partiti al potere e la maggior parte delle élite dominanti vennero screditati. La tirannia e la corruzione dilagavano ovunque. I meccanismi di redistribuzione erano bloccati e l’informalizzazione sia dell’economia che della vita sociale stava per diventare la norma.

Con l’affiorare di nuove faglie e conflitti, è emersa la necessità di liberalizzare la politica e le nuove generazioni hanno cercato di porre fine al governo monopartitico, all’instabilità istituzionale e alle dittature militari. Ma soprattutto erano alla ricerca di nuovi modelli di governo capaci di ridurre il divario tra il dinamismo culturale delle società, da un lato, e l’atrofia delle istituzioni preposte alla gestione della cosa pubblica, dall’altro.

Per rispondere alla dimensione economica e finanziaria della crisi, creditori esterni hanno imposto a molti governi misure di stabilizzazione macroeconomica e di aggiustamento strutturale. Secondo il pensiero dominante dell’epoca, gli Stati africani avevano fallito perché non erano mai stati veramente neutrali. Sono stati criticati per non essersi mai comportati come gli Stati della finzione liberale, vale a dire come arbitri volontari che si affidano alla “mano invisibile” per garantire l’interesse comune e ottimizzare l’efficienza e il benessere sociale.

Rifondare la politica e trovare forme endogene di democrazia

Avendo contribuito attivamente al consolidamento di un’ecologia della brutalità, molti Stati stanno affrontando crisi multiformi e conflitti talvolta sanguinosi. Lungi dal confermare la legittimità dei regimi al potere, le elezioni sono diventate un fattore scatenante di gravi disordini. Spesso truccate, esse hanno comportato perdite di vite umane e, in molti casi, hanno aperto la strada a crisi costituzionali punteggiate da colpi di Stato.

In fin dei conti, la maggioranza degli africani non gode ancora di alcuna garanzia in termini di diritti sociali o civili (diritto di associazione, libertà dei media, libertà di espressione) o di libertà fondamentali. Non si può escludere che, se ne avessero l’opportunità, molti sarebbero disposti a scambiare i diritti socio-economici minimi con i diritti politici e civili.    Inoltre, molti si chiedono costantemente se, nella competizione tra regimi democratici e autoritari, quest’ultimi non siano, come la Cina, più efficaci nel ridurre la povertà, costruire sistemi sanitari ed educativi funzionali alla sicurezza e promuovere una crescita economica inclusiva rispetto ai regimi cosiddetti democratici.

Alla luce della vasta transizione sociale in corso nel continente, diviene essenziale colmare il divario tra il potere creativo culturale delle società e delle comunità e la bassa qualità della vita pubblica e istituzionale. L’emergere, quasi ovunque, di nuove forme di organizzazione, espressione e mobilitazione tra le giovani generazioni testimonia la vitalità dei movimenti sociali e il vigore dell’innovazione in corso nel campo della creazione. L’accesso alle reti digitali, ad esempio, ha accresciuto le capacità deliberative di ampi strati sociali.

In questo contesto, il futuro della democrazia dipenderà da due condizioni. Da un lato, leader politici in grado di essere lievito nella pasta, in grado di tradurre in progetto politico il dinamismo e la creatività dell’informale; dall’altra, una politica che metta al centro la soddisfazione dei bisogni essenziali della popolazione. L’uscita dal regno della necessità      dovrà diventare la prima delle riforme democratiche in Africa, affinché i bisogni essenziali diventino diritti fondamentali.

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