Kissinger: Realpolitik, multilateralismo e integrazione europea

Com’era prevedibile, la morte di Henry Kissinger poco dopo il suo aver compiuto un secolo di vita ha generato una grande massa di commenti. Che per di più sono stati arricchiti, in termini di contenuti, dal suo essere stato un commentatore (e forse anche un po’ attore – vedi il suo ultimo viaggio in Cina e l’incontro con Xi Jinping) fino agli ultimi giorni della sua vita; e, in termini di valutazioni, dalla varietà dei giudizi sul suo operato, che sono andati dall’estremo del “più grande statista del secolo scorso” all’altro del “criminale di guerra”.

Kissinger e l’Europa

Qui si suggerisce che pur nell’abbondanza e nella varietà di tali commenti, qualcosa è mancato. A metterlo in rilievo mi aiuta un ricordo personale. Diversi anni fa – sarà stato verso la fine della prima decade di questo secolo – mi trovai in un convegno internazionale a commentare una relazione che l’ex-segretario di Stato americano vi aveva tenuto, con il suo tipico accento tedesco, sul quadro europeo in profondo mutamento. Alla mia obiezione che, nel tracciarlo, aveva sottovalutato il ruolo dell’Unione Europea, che a me sembrava invece rilevante, seguì una risposta che ricordo breve, quasi laconica, eppure indicativa: “Non sono un esperto di integrazione”.

Trovai una più articolata versione del suo pensiero pochi anni dopo in un passaggio del suo libro Ordine mondiale (2014), dove diceva: “L’Europa ha deciso di scostarsi dal sistema degli Stati da lei stessa progettato e di trascenderlo tramite un’idea di sovranità condivisa. (…) D’altra parte, avendo ridimensionato le proprie capacità militari, ha scarse possibilità di reagire quando le norme internazionali vengono trasgredite”.

Giudizio che in quello “scostarsi dal sistema degli Stati”, cioè dall’ordine vestfaliano sponsorizzato da Kissinger – pur aggiornato, in quanto adesso segnato dalla prevalenza degli Stati Uniti in sostituzione degli imperi del precedente – sembra nascondere una vena di scetticismo, se non di ostilità. Quest’ultima ipotesi è rafforzata dal più recente dei molti volumi prodotti dal Nostro: Leadership (2022). In esso sono disegnati i profili di sei leader-campione del Novecento. Orbene, due di quelli scelti, Margaret Thatcher e Charles De Gaulle, sono noti per essere stati contrari all’integrazione europea; e del secondo lo statista americano di origine tedesca scrive: “Nessun leader del XX secolo si è dimostrato altrettanto intuitivo. In tutte le questioni strategiche di grande importanza affrontate dalla Francia e dall’Europa nell’arco di oltre trent’anni (…) De Gaulle ha sempre visto giusto”. Ivi compreso, si direbbe, il suo aver contribuito, nel 1954, all’affossamento di quella Comunità europea di difesa, che avrebbe generato le “capacità militari” tramite la “sovranità condivisa”.

Tra le testimonianze che abbiamo letto a seguito della scomparsa si nota quella del nostro ministro dell’economia, che secondo quanto riportato dal Corriere della sera, ebbe un lungo incontro col personaggio nella primavera scorsa. In esso ci racconta Giancarlo Giorgetti: “A giudizio di Kissinger il problema è che oggi l’Europa è inconcludente. Discute, litiga ma non è capace di decidere”.  Riferisce ancora l’articolo: Kissinger e Giorgetti condivisero la tesi che “l’Europa non è più nella fase delle grandi leadership, quando cresceva sotto la loro spinta. Ora vive una stagione di stallo”.

Il fatto è che lo “stallo” riflette anche la pressione dei nazionalisti, o almeno dei sovranisti, la cui presenza sembra crescere nei vari schieramenti politici degli Stati membri e che annovera fra gli altri la Lega, dunque il partito, dunque la persona del ministro Giorgetti – pur con le note sfumature emerse a seguito del suo esercitare una critica funzione di governo, spesso imbrigliata da quel che resta dell’integrazione continentale.

Gli scetticismi di Kissinger 

Ma torniamo a Kissinger, i cui scetticismi sulle istituzioni europee abbiamo visto non essere solo di adesso. E, aggiungiamo qui, non essere solo per le istituzioni europee. Colpisce infatti, nella lettura delle molte sue analisi e prese di posizione pubblicate in questi mesi fra il centesimo compleanno e la morte, la scarsa rilevanza riservata al complesso di istituti multilaterali dei quali gli Usa sono stati pur spesso all’origine. Si prendano per esempio le ventidue pagine raccolte dall’Economist a seguito di una lunga intervista con l’ex-segretario di Stato: non sono solo la Comunità o l’Unione europea a brillare per lo loro assenza, bensì anche le Nazioni Unite.

Il realpolitiker, cultore dell’ordine nato con la pace di Vestfalia, quello degli equilibri e dei concerti delle potenze crollato nel XX secolo con le due guerre mondiali e ora da rifondare con la “grandi leadership” di adesso, ha sì capito la novità delle armi atomiche e l’efficacia della deterrenza nucleare per gestirle, ma non le altre novità del mondo del nostro tempo, dalla cresciuta interdipendenza fra le economie e le società all’emergere prepotente delle sfide transnazionali, più o meno globali, come l’ambiente e le nuove tecnologie. Novità per le quali il multilateralismo sembra essere un opportuno complemento, quando non un necessario correttivo, della geopolitica.

Questo è l’aspetto che è perlopiù mancato nei commenti e nelle valutazioni sull’operato di Henry Kissinger nella sua lunga vita di accademico, uomo di governo e analista.

Foto di copertina EPA/MICHAEL REYNOLDS

Ultime pubblicazioni