Regno Unito: corona e geopolitica

Le esequie di Elisabetta II Windsor, regina di Gran Bretagna, sovrana del Commonwealth, capo supremo della Chiesa d’Inghilterra, hanno concluso un lungo, ad un tempo solenne e popolare addio, trionfo della tradizione, dell’immagine, dell’eleganza. “Devo essere vista per essere creduta” disse lei una volta a un suo cortigiano. L’imperativo ha funzionato anche con la sua bara.

“La Gran Bretagna non ha ancora trovato un ruolo”

Stabilendo molti primati, il lunghissimo regno di una donna ha vestito di grande dignità lo storico declino di quello che ha il nome di Regno Unito. Nel 1962, dieci anni esatti dopo l’incoronazione della giovanissima Elisabetta, Dean Acheson, allora Segretario di Stato americano, osservò famosamente: “La Gran Bretagna ha perso un impero ma non ha ancora trovato un ruolo”. La constatazione, che al momento fece scalpore fra molti sudditi di Sua Maestà, sembra poter essere riaffermata altri sessant’anni esatti dopo. Senza grande scalpore.

Nel frattempo, ferme restando alcune posizioni di prestigio mondiale, come il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu o come lo status di potenza nucleare riconosciuta – pur entrambe caratterizzate in prevalenza da valore simbolico – il contesto geopolitico in cui si collocava questo grande protagonista della storia si è andato restringendo fino al tempo presente, quasi a ricollocarlo nella sua insularità.

Quel composito arrangiamento con cui Londra ha cercato di tenere in piedi un simil-impero, il Commonwealth, ha perso nel tempo qualche componente. Ma soprattutto ha perso rilevanza in un contesto internazionale in forte mutamento, spesso affidandosi, per dar segno di sé, a cerimonie in cui la famiglia reale era in maggiore evidenza proprio per compensare la limitata consistenza politica. Di recente si è poi fatta sentire una scuola storica (e anche un po’ una moda) che ci ricorda le violenze coloniali e razziali, di cui si resero responsabili le forze armate britanniche, per lo più prima di questa Elisabetta, ma in qualche caso anche durante il suo regno.

I sì agli Stati Uniti e i no all’Europa 

Il rapporto privilegiato della Gran Bretagna con gli Stati Uniti vincitori della Seconda Guerra Mondiale, sancito dalla riunione di Attlee con Truman e Stalin a Potsdam nel 1945, ebbe nome di special relations”, anche se più nel discorso inglese che in quello americano. Dopo, il suo collocarsi nella più ampia Alleanza Atlantica, comprensiva dell’Europa continentale occidentale per poter prevalere anche nella seguente guerra, quella “fredda” con il blocco sovietico, ne ha cancellato la specialità.

Il che ci porta alla dimensione europea del ruolo post-imperiale, di cui Londra sarebbe alla ricerca. Per tre quarti di secolo tale dimensione è stata marcata dal no-sì-no. No al progetto di una comunità europea di difesa (poi affossato dal parlamento francese), malgrado il favore inziale di Churchill (1950), No alla Comunità economica europea dei Sei (1953), preceduta dalla Conferenza diplomatica di Messina, da dove il rappresentante inglese telegrafò al Foreign Office che non ne sarebbe venuto fuori niente. Sì a un ripensamento, visto il grande successo del Common Market, e accesso alla CEE dopo l’uscita di scena del generale De Gaulle, che aveva detto no al ripensamento (1973). A seguire un faticoso sì al mercato unico (1986), i più no che sì ai vari tentativi di integrare difesa e sicurezza nella neo-costituita Unione Europea e il no alla moneta comune (2002).

Per finire, un sì per dire no: quello al quesito referendario del 2016, che chiedeva ai cittadini britannici se volevano uscire dall’UE, che al momento era composta da ventotto membri e che non aveva visto fino ad allora alcuna defezione. La Brexit è stata espressione della volontà di una ridotta maggioranza di britannici, per lo più provinciali e rurali, spinti dall’insicurezza e sedotti dalle fake-news di un ritorno alla potenza mondiale, contro le preferenze dei cittadini più urbani e più istruiti.

A seguire, una lunga, laboriosa, non ancora risolta diatriba negoziale con Bruxelles, i cui riflessi non risparmiano l’unità del Regno, visto il convergere, presso una possibile maggioranza di scozzesi e di nord-irlandesi, del desiderio di restare nell’altra Unione, quella europea, con l’attrazione all’indipendenza fra i primi (pur sotto la Corona) e all’unificazione con Dublino (repubblicana) fra i secondi.

Dio salvi il Regno Unito

Questo è il difficile contesto in cui il popolo britannico chiede ora a Dio di salvare il Re invece della Regina. Ulteriormente complicato dal fatto che quando Elisabetta II salì al trono, il governo, vero detentore del potere politico a Londra, era guidato da tale Winston Churchill, mentre il figlio Carlo III lo fa quando è appena entrata al 10 di Downing Street tale Liz Truss. La differenza sembra non limitarsi al genere.

Se e in che misura il passaggio della Corona e la grande emozione nazionale e internazionale che lo ha accompagnato potranno esser di qualche aiuto lo sapremo presto.

Foto di copertina EPA/STEVEN SAPHORE

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