Incubo. Terza guerra mondiale

Entrati con affanno e preoccupazione nel 2024, ci chiediamo come sia possibile uscire indenni dal moltiplicarsi delle crisi e delle guerre nel mondo. Secondo il Crisis Group il numero dei conflitti in corso o potenziali ha raggiunto la preoccupante soglia di 55, di cui almeno dieci sono già definibili come guerra o scontro armato. Ad aggravare questo stato di cose si calcola che il 90% delle vittime sia di incolpevoli civili. Insomma, siamo davvero nel pieno di quella che Papa Bergoglio ha definito come Terza guerra mondiale a pezzi.

Quello che più impressiona è che gli sforzi diplomatici, quando ci sono, non riescono davvero a portare ad una soluzione degli scontri in atto. Solo a seguito di grandi sforzi si ottengono piccoli, anche se importanti, risultati nel campo degli interventi umanitari, come un limitato scambio di prigionieri, la distribuzione temporanea di cibo e medicinali o, come nel caso russo-ucraino, il passaggio nel Mar Nero di navi per portare il grano nei paesi più poveri. Ma la politica non riesce a spingersi oltre. Molti, troppi, leader nazionali preferiscono ricorrere all’uso delle armi per far prevalere i propri interessi.

L’evoluzione dei conflitti dal Secondo dopoguerra

Non che nel passato, dopo la Seconda guerra mondiale, non si siano manifestati conflitti in molte parti del mondo (basti pensare al Vietnam o alla Corea), ma in un modo o nell’altro si riusciva ad arrivare ad un cessate il fuoco e ad un successivo accordo. Vi è stato poi un periodo, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, durante il quale il numero delle guerre è notevolmente calato. Questa fortunata pausa è durata però solo una decina di anni, fino al 2001, con l’attacco terroristico alle due torri e le conseguenti, sproporzionate reazioni di Washington con la guerra in Afghanistan e la successiva, ancora più disgraziata, contro l’Iraq. Sono poi seguite, nel 2011, le cosiddette primavere arabe, che hanno dato origine a rivoluzioni civili in Libia, Egitto, Siria e Yemen.

Da allora è stato un moltiplicarsi di crisi, in gran parte trascinate da quello che il grande politologo americano Samuel Huntington aveva previsto: lo scontro di civiltà. Si spiegano con ciò le lunghe stagioni del terrorismo mediorientale, da Al Qaeda all’Isis, tutte dirette contro l’Occidente cristiano. Oggi questo scenario di confronto culturale/religioso si riproduce con inaudita violenza fra Hamas e Israele e rischia di propagarsi in tutta la regione, con mezzo mondo incapace di trovare una via d’uscita da questa tragedia.

Vi sono diverse ragioni dietro questa impotenza a esercitare un grande e collettivo sforzo per far cessare i conflitti che vanno dall’Ucraina al Medioriente, dal Sudan all’Etiopia, dall’Azerbaijan all’Armenia, per citare quelli più trattati dai mass media. La prima essenziale ragione è che l’organismo deputato per le mediazioni e le soluzioni ai conflitti ha clamorosamente fallito. Le Nazioni Unite, nate a San Francisco nel 1945, non sono mai state in grado di imporre le decisioni necessarie. Neppure ai tempi del confronto ideologico/politico fra Usa e Urss sono riuscite ad entrare nei giochi delle due superpotenze. Solo dall’accordo bipolare fra Washington e Mosca potevano nascere accordi di pacificazione.

Dall’unipolarismo americano ad un sistema mondiale multipolare

Con la scomparsa dell’Urss è toccato all’America erigersi a gendarme del mondo: è il periodo, piuttosto recente, del cosiddetto unipolarismo. Unipolarismo che ha finito per indebolire Washington, come è stato clamorosamente confermato dalla rovinosa uscita dall’Afghanistan dei Talebani. Uno stato di fatto che è anche all’origine della decisione di Vladimir Putin di aggredire l’Ucraina allo scopo di ribadire che la Russia conta ancora e che la sua influenza si estende al di là dei confini nazionali.

Solo che oggi non è possibile ristabilire il vecchio equilibrio fra l’America e la Russia. Il pollaio dei conflitti odierni è infatti affollato di ben altri galli, a cominciare dalla grande e potente Cina, che si è di fatto sostituita alla vecchia Urss nella competizione con Washington. Ma accanto a Pechino sono nati numerosi altri attori che i politologi odierni hanno collocato nel cosiddetto Global South: dalla emergente India al Brasile, dall’Iran all’Arabia Saudita, dalla Turchia al Sud Africa. Quest’ultimo ha addirittura portato Israele di fronte alla Corte Penale Internazionale con l’accusa di genocidio. Anche se poi la sentenza della Corte mantiene tutte le ambiguità di questa guerra con la richiesta ad Israele di evitare atti di genocidio, ma non gli impone di interrompere le azioni militari.

Poiché tutte le crisi e i conflitti, anche più lontani e minori, hanno riflessi internazionali, è abbastanza comprensibile come dal divergere degli interessi degli attori in campo sia quasi impossibile trovare il bandolo di possibili soluzioni negoziali. Insomma, questo mondo ormai multipolare e quasi tutto schierato contro il vecchio Occidente non garantisce un bel nulla ma, anzi, non fa altro che moltiplicare le occasioni di nuovi conflitti.

L’unico punto di speranza per evitare lo scoppio di un terzo conflitto mondiale è che l’interesse delle grandi potenze – Usa, Cina e magari Russia – sia quello di non trascinare le situazioni di tensione fino ad uno scontro diretto fra di loro. Il rischio è però quello di perdere il controllo della situazione e di arrivare alla soglia di un possibile incidente che finisca per condurci a conseguenze fatali. È quindi più che mai necessario ritornare a rifondare un diverso sistema multilaterale che si basi su meccanismi efficaci e democratici di gestione delle crisi, togliendo di torno quell’antistorico diritto di veto che blocca ogni decisione dell’Onu, rendendola fin dalla sua nascita una scatola vuota.

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