Il Piano Mattei: per l’Africa o con l’Africa?

L’Italia ha inaugurato il suo anno di presidenza del G7 con un evento dalla grande portata simbolica e rappresentativo delle ambizioni dell’esecutivo in carica, il vertice Italia-Africa del 28-29 gennaio a Roma. L’incontro è stato a lungo atteso come primo banco di prova per la strategia di “cooperazione da pari a pari” con l’Africa che Giorgia Meloni ha insistentemente proposto come centrale per la politica estera del suo governo e per misurare la reale portata del cosiddetto Piano Mattei per l’Africa, il progetto con cui Palazzo Chigi intende sostanziare tale strategia ma di cui ancora si attende un documento programmatico ufficiale.

Le aspettative dietro al Vertice

Roma ha scelto di ospitare il Vertice per ottenere alcuni dividendi politici: anzitutto il ritorno d’immagine dato dalla capacità dell’Italia di raccogliere ad un suo tavolo i principali leader del continente e di mostrarsi agli occhi dei partner europei come uno dei possibili capofila, se non il vero e proprio paese motore nei rapporti con i governi del continente. A questo corrisponde un obiettivo speculare di politica interna: dimostrare all’elettorato che il governo intende affrontare in maniera sistemica la questione dell’immigrazione irregolare, cresciuta nell’ultimo triennio in modo massiccio, intervenendo con i paesi d’origine per creare soluzioni di lungo periodo. Infine, una terza direttrice è la ricerca di partnership economiche che coinvolgano anche i privati tramite l’apertura di nuovi canali commerciali con i paesi africani. In quest’ultima linea di azione rientra l’idea, già attivamente promossa dal governo tramite accordi bilaterali, di fare dell’Italia un “hub energetico” nel Mediterraneo per tutta l’Europa. Il Vertice Italia-Africa doveva rappresentare l’occasione per articolare questi obiettivi attorno all’idea, centrale nella narrazione del piano Mattei, di sviluppare un nuovo approccio “non predatorio” al continente africano.

I partecipanti e i primi riscontri

Il Vertice di fine gennaio ha segnato certamente una novità rispetto al recente passato: le precedenti edizioni, inaugurate nel 2017 dal governo Gentiloni, avevano sempre visto una partecipazione limitata ai livelli ministeriali. Quest’anno invece, dei quarantasei paesi partecipanti, ventuno hanno inviato figure apicali come capi di stato (tra cui quelli di Tunisia, Repubblica del Congo, Somalia, Kenya e Mozambico) o di governo (inclusi i premier di Libia, Etiopia e Marocco). Un’altra presenza significativa è stata quella di esponenti di istituzioni e organizzazioni internazionali sia europee, rappresentate da Ursula von der Leyen, Roberta Metsola e Charles Michel, che africane, con il Presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki in testa.

A fare da contraltare a questo successo d’immagine va tuttavia registrata l’assenza di alcuni paesi di grande peso, Nigeria in primis, e l’invio di delegati di livello inferiore da parte di altri stati chiave del continente africano, come il Sudafrica, rappresentato dal viceministro degli esteri. Inoltre, il vertice è stato impostato come incontro di alto livello, tra élite di governo, con un coinvolgimento limitato delle società civili, come osservato da più parti.

A rendere il quadro ancora più complesso è stato l’insieme di reazioni che sono emerse già nel corso dei lavori in Senato. L’intervento di Moussa Faki, in particolare, è stato caratterizzato da toni critici. Nell’affermare che i paesi africani sono “pronti a discutere il progetto”, Faki ha lamentato l’assenza di consultazione, da parte italiana, dell’Unione africana nella fase di definizione del piano, chiedendo poi di passare “dalle parole ai fatti”, dato che i leader del continente non possono accontentarsi “di promesse che spesso non vengono mantenute”. Faki ha infine sottolineato come la “libertà non allineata a un blocco unico” sia un principio cardine delle relazioni internazionali dei paesi africani.

Il Piano è stato accolto con toni più positivi dalle istituzioni europee; la Presidente von der Leyen, in particolare, ha elogiato l’iniziativa come coerente il più ampio Global Gateway europeo, a cui l’Italia ha già rivolto attenzione in più occasioni. L’assenza di rappresentanti di altri stati membri come Francia, Germania e Spagna, tuttavia, ha suscitato interrogativi sulla effettiva possibilità di allargare l’iniziativa a livello europeo, presupposto fondamentale per ampliare il bacino di risorse disponibili a sostegno delle ambizioni del Piano.

Il tema delle risorse

Stando a quanto annunciato da Giorgia Meloni durante il vertice, le risorse attualmente disponibili per il piano Mattei ammontano a cinque miliardi e mezzo di euro. Di questi, una parte consistente proviene dal Fondo italiano per il clima, circa tre miliardi di euro, la restante parte proveniente dai fondi italiani per la cooperazione allo sviluppo. Queste risorse dovrebbero essere utilizzate per iniziative articolate attorno a cinque priorità: acqua, agricoltura, energia, istruzione e formazione, e salute, rispetto a cui sono stati annunciati alcuni “progetti pilota”.

Il confronto con il Global Gateway Ue è una cartina da tornasole per capire la traiettoria del piano Mattei e la sua possibile prosecuzione. Anche se il Global Gateway raccoglie progetti europei già esistenti, la differenza di volume nelle risorse a disposizione è lampante: per quel che riguarda la sola Africa, il Global Gateway prevede circa 150 miliardi di euro di investimenti tra il 2021 e il 2027, con un livello di dettaglio riguardo ai progetti messi in campo al momento non disponibile per il piano Mattei.

Un possibile futuro per il Piano Mattei

A oggi un testo ufficiale del piano Mattei non è ancora stato pubblicato. Rimane quindi lo spazio per adattare questa ambiziosa visione alla luce di quanto emerso nel corso del summit. Le principali criticità riguardano anzitutto le risorse messe a disposizione, ma anche l’effettiva capacità di dar vita a un’interlocuzione virtuosa e improntata realmente alla condivisione con le controparti africane. Queste ultime, peraltro, non possono limitarsi ai rappresentanti di governi più o meno democratici: se l’ambizione del Piano è realmente quella di innescare processi di sviluppo positivi sul medio-lungo termine, è fondamentale che il coinvolgimento sia esteso ai rappresentanti della società civile dei paesi partner. Allo stesso modo, un’integrazione del Piano in una più ampia cornice europea – sia a livello di istituzioni comunitarie, che di stati membri – è un presupposto indispensabile per garantire un supporto adeguato in termini di risorse ed expertise ed evitare di innescare dinamiche di competizione potenzialmente deleterie.

Questi temi verranno affrontati anche in occasione della presentazione dell’edizione 2023 dell’annuale Rapporto sulla politica estera italiana, martedì 6 febbraio, con una tavola rotonda che vedrà la partecipazione di politici, giornalisti ed esperti nazionali.

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