Il patto sociale rotto tra Putin e i russi che non vogliono più la guerra

Secondo un sondaggio ‘riservato’, condotto dal Servizio federale di protezione russo, il 55 per cento dei russi è a favore di un negoziato con l’Ucraina, e soltanto un quarto vorrebbe proseguire la guerra. Se questi dati del raccolti dal corpo speciale che si occupa della sicurezza della presidenza russa fossero veri, significa che la guerra che Vladimir Putin aveva iniziato in buona parte come doping per la sua popolarità in declino sta segnando invece un divario senza precedenti tra l’opinione pubblica della società e il Cremlino.

Il sostegno alla guerra si è più che dimezzato da luglio, quando era al 57 per cento, mentre il numero dei sostenitori della pace è quasi raddoppiato dal 32 per cento.

Il patto sociale rotto tra Putin e i russi

Ovviamente, restano tutti gli interrogativi sull’attendibilità del sondaggio “segreto”, rivelato dalla testata di opposizione Meduza, e sulla possibilità in generale di misurare l’opinione pubblica in un Paese dove chi chiama guerra “guerra” rischia una condanna in tribunale. I numeri e il trend però vengono confermati dal Levada-Zentr, l’unico centro demoscopico indipendente russo, il cui direttore Denis Volkov attribuisce senza ombra di dubbio il ribaltamento dei sondaggi negli ultimi tre mesi alla mobilitazione indetta da Putin il 21 settembre scorso: “I cittadini non vogliono partecipare personalmente a una guerra che in molti hanno sostenuto”.

La mobilitazione ha segnato una rottura del patto sociale che il putinismo aveva proposto per più di vent’anni: delegare le decisioni politiche al Cremlino in cambio di un maggiore benessere economico e dell’immagine di una Russia great again trasmessa dalla propaganda televisiva. La prima parte di questo patto era stata violata dalla riforma delle pensioni nel 2018, la mobilitazione ha rotto la seconda clausola, e la reazione dei russi è stata immediata: oltre al milione di persone, che nei giorni immediatamente successivi sono scappate dalla Russia, il consenso alla guerra – e quindi a Putin, un presidente che sulle guerre ha costruito il suo capitale politico – è crollato.

I negoziati con ‘bottino’

È una svolta che lascia a Putin pochissimo spazio temporale per una manovra, prima di venire considerato definitivamente dalla sua nomenclatura come un perdente. Quando due droni di Kyiv penetrano nel territorio russo per distruggere indisturbati dei bombardieri strategici in due basi militari distanti 700 chilometri dal confine, ribattere a questa umiliazione militare e politica mostrando il presidente che guida una Mercedes lungo il ponte della Crimea riparato dopo la bomba ucraina di due mesi fa non appare molto convincente, e il sociologo Grigory Yudin dice a Meduza che i russi cominciano a chiedere un negoziato perché “dopo le sconfitte al fronte non credono più nella vittoria, in assenza di una teoria credibile di come la Russia potrebbe vincere”.

Si tratta di un momento importante, e delicato: se la maggioranza dei russi non vuole più la guerra, restano grossi dubbi sul negoziato che iniziano a invocare. Desiderare di chiudere una guerra palesemente persa non equivale ad ammetterla come un errore, e probabilmente proprio per questo Putin insiste – o almeno, di questo parlano diverse indiscrezioni diplomatiche – a negoziare una tregua che lasci alla Russia i territori ucraini attualmente occupati, da presentare come il bottino di una “vittoria”.

Il problema è che un terzo delle spese della finanziaria 2023 è destinato alla guerra o agli organismi repressivi, e se oggi i russi scontenti preferiscono la fuga, almeno quelli che possono permetterselo, domani la crisi economica sovrapposta alla sensazione di aver perso la guerra potrebbe far scoppiare su scala più vasta una protesta come quelle che si sono viste a decine nelle caserme dei riservisti chiamati in guerra spesso senza mezzi né armi. La nuova legge che proibisce di manifestare in numerosi luoghi pubblici – scuole, stazioni, porti, ospedali, uffici governativi o infrastrutture – sembra essere un ennesimo segno di come il Cremlino viva nell’incubo di una ‘primavera russa’.

Chi resta e chi fugge

A salvare, per ora, il regime putiniano, in una situazione potenzialmente esplosiva, è però non soltanto la repressione, ma anche l’assenza di un movimento di protesta più o meno organizzato. Alexey Navalny è stato nascosto al mondo in un carcere di massima sicurezza, i suoi seguaci sono dietro le sbarre oppure in esilio all’estero, come buona parte del loro potenziale elettorato.

Come tante volte nella sua storia, la Russia si è spaccata tra chi resta e chi fugge, e anche tra questi ultimi la confusione di idee sulle responsabilità del passato e i progetti per il futuro è notevole, come dimostra anche il caso del cronista della tv dissidente Dozhd, che dal suo esilio in Lettonia ha chiamato ad aiutare “il nostro esercito”, cioè quello russo. Il suo inevitabile licenziamento ha provocato una polemica che ha ulteriormente allontanato i liberali russi sia dall’opinione pubblica ucraina che da quella europea.

Nessun cambiamento all’orizzonte

Anche tra i ‘russi buoni’ che condannano la guerra molti non sono pronti ad abbracciare le ragioni dell’Ucraina, o a desiderare la sconfitta del proprio Paese, e molti sono terrorizzati dal caos che potrebbe scaturire da un regime change. Ma se gli intellettuali – essenzialmente in esilio – che danno una diagnosi brillante e spietata del fallimento russo sono comunque molti, i leader del dissenso che stanno riflettendo su soluzioni per uscirne sono pochissimi.

I sostenitori della “bellissima Russia del futuro” come la definiva Navalny stanno fuggendo, oppure sono costretti al silenzio. I progetti di riforma e rifondazione proposti, per esempio, da Mikhail Khodorkovsky o Sergey Guriev possono apparire convincenti sulla carta. Quello che manca è una forza che possa raccogliere il potenziale racchiuso nel 55% di russi che non vogliono più la guerra per trasformarlo in un movimento per il cambiamento.

Foto di copertina EPA/MIKHAIL METZEL / KREMLIN POOL / SPUTNIK / POOL

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