Le nuove alleanze di Mosca in Medio Oriente

C’è un abisso di 22 anni e una svolta geopolitica a 180 gradi tra il Vladimir Putin che, l’11 settembre 2001, fu il primo leader a telefonare alla Casa Bianca dopo l’attacco di al Qaeda, e il presidente russo che ci mette, oggi,  nove giorni a far squillare il telefono di Benjamin Netanyahu, rifiutandosi di mettere nero su bianco una condanna dell’attacco di Hamas contro Israele nei documenti dell’Onu. All’epoca, si trattava di una Russia ansiosa di schierarsi con l’Occidente, di venire riconosciuta come alleata preziosa in una “guerra di civiltà” contro il fondamentalismo che sosteneva di aver già iniziato due anni prima in Cecenia, e di lasciarsi alle spalle le amicizie difficili ereditate dall’epoca sovietica (è dello stesso periodo la chiusura delle basi militari a Cuba e nel Vietnam).

Hamas a Mosca

Oggi, tra gli alleati e gli interlocutori più fidati della diplomazia di Mosca ci sono Hamas e i talebani, l’Iran e la Cecenia islamizzata di Ramzan Kadyrov, il cui figlio picchia davanti alle telecamere un russo accusato di aver bruciato il Corano. E nonostante i tentativi di un linguaggio diplomatico formalmente distaccato, la scelta di invitare la delegazione di Hamas a Mosca, dove farla incontrare con il viceresponsabile della diplomazia iraniana Ali Bagheri Kani, e permettere al capo della missione Abu Mazrouk di usare i media statali russi per lanciare moniti e dichiarazioni, non può essere qualificata come ordinaria diplomazia: i leader occidentali vanno in pellegrinaggio in Israele, e il rifiuto della Russia di condannare l’attacco del 7 dicembre in questo contesto non è una manifestazione di “equidistanza”, ma una presa di posizione che va ben oltre la mediazione.

Una presa di posizione coerente con la rete di alleanze e affiliazioni ideologiche che il Cremlino ha costruito negli ultimi anni. L’attacco contro l’Ucraina, presentato da Putin e dalla sua propaganda come giustificato dalla sfida all’Occidente colonialista, prepotente e invasivo, ha distrutto quel potenziale che permetteva alla Russia, seppure sempre più faticosamente, di proporsi alla diplomazia occidentale come mediatrice e/o alleata. Soltanto otto anni fa, schierandosi a fianco di Bashar al-Assad in una guerra che di fatto metteva la Russia contro l’Occidente, Putin era ancora riuscito a sembrare a molti politici occidentali un alleato scomodo, ma credibile, e necessario nello scontro con il fondamentalismo dell’Isis. Oggi, la retorica e le azioni – dall’alleanza esplicita con Teheran, che continua a fornire a Putin i droni con i quali bombardare le città ucraine, all’esplosione di discorsi antisemiti e antisionisti nella televisione di propaganda russa – di Mosca rendono impossibile una partita su due tavoli.

Il pragmatismo – manifestato dalla diplomazia putiniana essenzialmente fuori dall’Europa e dall’Occidente – che aveva permesso al Cremlino di dialogare con un certo successo con attori diversi e spesso conflittuali come l’Iran, l’Arabia Saudita e i regimi arabi laici come l’Egitto, è stato sostituito da un approccio che si basa sulla triangolazione “il nemico del mio nemico è un mio amico”. Se Israele e Ucraina vengono aiutati dagli Stati Uniti e dall’Europa, schierarsi a fianco di Hamas e dell’Iran diventa abbastanza inevitabile. E se Putin vuole conquistarsi le simpatie del “Sud globale” con un discorso anticoloniale, come quello che ha portato sia al vertice dei Brics che a quello di Belt&Road a Pechino, è una scelta di campo che limita la sua potenziale libertà di manovra quanto la dipendenza dalle forniture militari di Teheran.

“Cercare amici tra i propri nemici”

Nella posizione di Putin, si tratta comunque di alleanze abbastanza logiche, sia nell’ottica di recupero di tutta l’eredità sovietica, compreso il tradizionale rapporto con il mondo arabo in chiave anti-israeliana e anti-americana, sia ai fini tattici della guerra contro l’Ucraina. Non a caso Volodymyr Zelensky ha messo in guardia l’Europa contro il nuovo “asse del Male” che potrebbe formarsi a Mosca: “I nemici della libertà sono molto interessati ad aprire un secondo fronte contro il mondo libero”. Il Cremlino in efetti sognava e cercava il secondo fronte da un anno e mezzo, e ora a livello mediatico, la guerra in Ucraina è già sparita dalle prime pagine internazionali, e Mosca spera che anche a livello di aiuti militari – nonostante le rassicurazioni di Joe Biden e dei leader europei – le esigenze di Kyiv passino in secondo piano.

La logica di cercare amici tra i nemici dei propri nemici, e di scommettere sul tradizionale antisemitismo del nazionalismo russo – sintomatico l’incontro del presidente con i capi religiosi, durante il quale Putin e il patriarca Kirill hanno continuato a parlare di “Terra Santa” senza menzionare Israele – rischia di annientare un altro esercizio finora riuscito di “equidistanza” russa. Il miracolo di mantenere le relazioni contemporaneamente con l’Iran, la Siria e Israele difficilmente potrà durare. È vero che la cospicua comunità di israeliani di origini ex sovietiche parla prevalentemente russo, simpatizza per la Russia e vota Netanyahu, che infatti non ha aderito alle sanzioni contro Mosca e non ha inviato aiuti (almeno non ufficialmente) all’Ucraina. È vero anche che l’élite imprenditoriale e culturale russa ha con Israele legami profondi. Ma è molto improbabile che Israele perdonerà a Mosca gli scambi di cortesie con Hamas (la visita della delegazione di Gaza è stata definita dal ministero degli Esteri dello Stato ebraico come “un passo osceno”), e il rifiuto ostentato a condannarne gli attacchi nelle sedi internazionali.

EPA/ALEXANDR DEMYANCHUK/SPUTNIK/KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT

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