Il gran rifiuto di Prigozhin tiene in scacco Putin

L’ammutinamento di Evgeny Prigozhin alla richiesta di Vladimir Putin di arruolare i suoi mercenari del gruppo Wagner nelle file dell’esercito ufficiale russo apre una fase totalmente inedita nella decomposizione del regime.

Finora, almeno formalmente, il conflitto tra il “cuoco di Putin” e il ministero della Difesa era uno scontro che avveniva sotto la supervisione del Cremlino, e qualcuno aveva perfino ipotizzato che il presidente russo utilizzasse la brutalità di Prigozhin per spaventare i suoi generali, e già che c’era anche qualche partner occidentale allibito di fronte alla prospettiva di dover negoziare non più con un anziano colonnello dell’ex Kgb, ma con un signore della guerra che ammazza i nemici a martellate. Sembra che la marionetta abbia strappato i fili: il capo della Wagner non solo ha rifiutato la proposta di Putin di “mettersi in regola”, anche per godere delle “garanzie sociali”, ma ha replicato che è il presidente a dover pensare come mantenere fede agli impegni presi con i Wagner quando li aveva mandati a tirare fuori dai guai il suo disastrato esercito a Bakhmut.

Il significato dell’ ‘ammutinamento’ di Prigozhin

È la prima volta che qualcuno risponde con un “niet” a Putin, e se il Cremlino non reagirà, e rapidamente, a questa ribellione, diventerà ufficiale quello che già molti politici e oligarchi russi hanno intuito: in Russia sta nascendo un centro di potere alternativo, basato sulla forza militare, su un esercito privato. Il dominio incontrastato di Putin si basava sulla “verticale di potere” che aveva costruito in un quarto di secolo, un sistema quasi monarchico nel quale la legittimità, il potere e il denaro derivavano dal presidente, e i componenti della classe dirigente ottenevano la loro posizione grazie al favore che incontravano presso il leader supremo.

L’origine di Prigozhin è esattamente la stessa degli altri gerarchi, ma è il primo ad aver osato “mettersi in proprio”. Una opportunità regalata dalla guerra, che ha incrementato a dismisura il suo potere in quanto unica forza militare di una qualche efficienza, sostenuta da una campagna mediatica brutale quanto azzeccata. Prigozhin è oggi l’unico esponente del regime a dire la verità su una guerra persa, e a dirla con la caustica durezza propria del suo personaggio. Eliminarlo in questo momento significa per Putin non solo pregiudicare le già scarse possibilità di progressi sul campo di battaglia, ma colpire un uomo che si sta costruendo una popolarità sempre più diffusa, soprattutto tra i nazionalisti delusi dal presidente. Non eliminarlo significa però distruggere il monopolio sulla violenza del leader supremo. Se Putin non reagisce al “no” di un comandante dei mercenari, vuol dire che la sua Russia “è diventata un failed state”, secondo la definizione del politologo Abbas Galyamov. 

Il potere di Prigozhin non deriva soltanto dall’essere il “vincitore di Bakhmut” che non può venire punito. Tutto (o quasi) l’entourage di Putin si rende conto che la guerra non verrà mai vinta, e che andrebbe chiusa al più presto per salvare il salvabile. L’incontro del presidente con gli “inviati di guerra”, il 13 giugno, ha lasciato interdetti proprio i propagandisti più agguerriti dell’invasione dell’Ucraina: Putin ha sfoggiato una visione della situazione sul campo più vicina ai fake diffusi dal ministero della Difesa che alla realtà, è stato approssimativo, sconclusionato e tranquillizzante. Secondo Galyamov, la classica frase “alla fine deciderà Putin”, rassicurante verdetto finale di ogni disputa da 24 anni, oggi suona alle orecchie dei suoi gerarchi semmai come preoccupante. 

I movimenti per il dopo Putin

L’elite russa è pietrificata in attesa del “dopo”, che tutti si rendono conto inevitabile e tutti vorrebbero fosse qualcun altro a realizzare, perché la prospettiva di un collasso totale del regime – in un gruppo dirigente nel quale nessuno si fida dei colleghi – rischia di portare a una guerra di tutti contro tutti. Non è un caso che diversi protagonisti della politica russa – dal consorzio Gazprom a singoli oligarchi putiniani come Gennady Timchenko, ai capi delle regioni come i leader della Crimea e della Cecenia – hanno iniziato a formare i propri “eserciti privati” sul modello dei Wagner, e perfino il ministro della Difesa Sergey Shoigu ha un’armata di contractor. Formazioni che non servono tanto a guadagnare punti in guerra, quanto a diventare una assicurazione per quel “dopo” che sta diventando sempre più probabile, in assenza di una capacità politica di Putin di innestare la retromarcia.

In questa prospettiva, i 50 mila fucili di Prigozhin sono diventati un asset cruciale, la carta che può cambiare il gioco. In un sistema che misura il potere dalla quantità di paura che può incutere, il “cuoco di Putin” che dice di no al suo padrone diventa un uomo al quale pochi oserebbero dire di no. Può chiedere e ottenere risorse economiche molto ampie dagli oligarchi in cerca di protezione. Può garantire una transizione di potere, al pari del maresciallo Georgiy Zhukov, nella transizione post-Stalin. Il paragone tra il conquistatore di Berlino che ha sconfitto i nazisti, e un ex detenuto che comanda un esercito di galeotti, può suonare provocatorio, ma offre la misura della degenerazione di quella Unione Sovietica 2.0 che Putin ha cercato di resuscitare. Il risultato è una cleptocrazia che si sta trasformando in un “failed state” a rischio di una guerra tra clan. In un sistema del genere un uomo che sembrava una scheggia impazzita si scopre il primo ad aver intuito la necessità di un esercito privato, grazie al quale può ambire a diventare un “kingmaker”. O un “kingslayer“.

Foto di copertina TELEGRAM/WAGNER – NPK

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