Aleksandr Lukashenko: un uomo “in bilico”

Era stato dato per morto, e già a maggio i cremlinologi studiavano con l’ingrandimento le sue foto alla parata di Mosca, con le bende sulle mani che spuntavano da sotto la giacca, la faccia gonfia e i piedi che lo reggevano a malapena, tanto da venire trasportato in auto per i 300 metri che doveva fare dalla piazza Rossa alla tomba del Milite ignoto. Ogni sua visita da Vladimir Putin si concludeva con un ricovero, e qualcuno aveva perfino fatto circolare voci di un avvelenamento. Ma Aleksandr Lukashenko è sopravvissuto a tutto, inclusa una rivoluzione popolare, e il suo ritorno sulla scena politica russa – più che mai loquace e apparentemente in forma – è una delle conseguenze più inattese del golpe mal riuscito di Evgeny Prigozhin.

 

Il dittatore bielorusso si è reinventato “mediatore” tra Putin e il suo “cuoco” ribelle, e per quanto il suo resoconto del negoziato che avrebbe condotto assomiglia di più a un dialogo tra killer maldestri di una sceneggiatura di Tarantino (“Aspetta ad accopparlo, gli ho detto” resta una frase che segna il nuovo livello minimo del’eloquio politico postsovietico), Lukashenko è riemerso dalla breve ma intensa crisi moscovita come il detentore di due asset politici importanti: il gruppo Wagner, che ha eletto Minsk a sua nuova sede operativa, e le testate atomiche tattiche che il Cremlino sostiene di aver collocato in Belarus.

L’unico vero alleato di Putin…

Una miscela esplosiva, anche se nessuno dei due asset è in mano a Lukashenko (e a dire il vero esistono fondati dubbi sulla presenza fissa sul suolo belarusso sia dei mercenari che delle atomiche). Resta comunque il fatto che Lukashenko rimane, secondo la sua stessa definizione, “l’unico vero alleato di Putin”: l’ha accompagnato negli ultimi pellegrinaggi del leader russo ai vari monasteri del Nord, mostrandosi ormai più partner che ospite, almeno davanti alle telecamere. Secondo il Moscow Times, è “l’unico alleato ideologico di Putin, proprietario di un arsenale infinito di giustificazioni ridicole di qualunque gesto del suo aggressivo protettore moscovita”. Che comunque si permette di prendere in giro: il racconto, davanti alle telecamere, della fatica che Lukashenko farebbe a “trattenere i Wagner” ansiosi di “fare una gita in Polonia”, non è soltanto una minaccia a Varsavia, ma anche un messaggio a Putin sui favori che gli fa, e i costi che sostiene. Messaggio che il Cremlino ha recepito, almeno a livello di aiuti economici.

…ricerca maggiore autonomia

La strana coppia Putin-Lukashenko continua dunque a calcare le scene, anche se tra i due non è mai corso buon sangue, soprattutto perché il dittatore di Minsk continua a riuscire a sgusciare tra le dita del collega moscovita, senza concedergli la tanto desiderata annessione totale della Belarus alla Federazione Russa, e continuando a non mandare in guerra in Ucraina il suo esercito. È vero che ormai il territorio belarusso è di fatto occupato dall’esercito di Mosca, ma l’addestramento che i Wagner hanno iniziato a impartire all’esercito di Minsk potrebbe paradossalmente aumentare il grado di autonomia di Lukashenko, la cui sopravvivenza dopo la repressione della rivoluzione popolare di tre anni fa dipende essenzialmente dall’aiuto russo. Lukashenko e Prigozhin hanno in comune una totale spregiudicatezza di retoriche e mezzi, e un solo obiettivo, sopravvivere, senza farsi fagocitare da Putin. Anche perché il “padre dei belarussi” ha un problema di successione: dopo 29 anni di regno non vorrebbe che il Paese che considera un feudo della sua famiglia passasse ai russi, non intenzionati a condividere potere e denaro con gli eventuali eredi.

Le reti di Lukashenko

Quello di Lukashenko è un esercizio quasi da funambolo: una caduta del regime di Mosca lo lascerebbe indifeso di fronte a una rivolta che aspetta soltanto l’allentamento della repressione per esplodere, un rafforzamento del Cremlino lo renderebbe la prossima vittima degli appetiti imperiali russi. La sua soluzione preferita sarebbe una crisi interminabile. La repressione di qualunque potere alternativo in Bielorussia (incluso quello oligarchico) ha creato una “verticale di potere” che corrisponde alle esigenze di Lukashenko, ma difficilmente sarà in grado di difendere i propri interessi in sua assenza.

 

Motivo per cui paradossalmente il dittatore bielorusso rappresenta per Putin un problema, e il padrone del Cremlino non gradisce quando all’improvviso si trasforma in una soluzione. Né si fida, considerato che Lukashenko ha un rapporto molto stretto con Pechino (dove studia il suo figlio e potenziale delfino Nikolay), con alcuni Paesi del Golfo (dove terrebbe il suo patrimonio), e che già in passato ha provato a proporsi come il male minore all’Europa. Operazione, quest’ultima, ormai quasi impossibile, ma la speranza del clan di Minsk è di restare in bilico sull’orlo del precipizio nel quale Putin ha trascinato la Russia. Soprattutto ora che i Wagner potrebbero diventare la garanzia di sicurezza di Lukashenko rispetto a un esercito del quale si fida talmente poco da non mandarlo in Ucraina (ottenendo in cambio protezione, e la possibilità di trasformare la Bielorussia nella loro centrale operativa).

 

Foto di copertina EPA/ALEXANDER DEMYANCHUK / SPUTNIK / KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT

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