La rilevanza della NATO e il nuovo inquilino della Casa Bianca

“La NATO può resistere a tutto, tranne che a un presidente americano”. Questa battuta di Stefano Silvestri rende bene un concetto articolato che viene testato come non mai dall’amministrazione Trump in carica, a partire dalla richiesta di spendere il 5% del PIL nelle forze armate nazionali dei Paesi membri.

Ovvero, da un lato l’Alleanza atlantica si è dimostrata versatile e resistente rispetto al cambiamento del quadro strategico, dal collasso dell’Unione Sovietica all’ascesa e declino della guerra al terrorismo, fino alla doppia invasione dell’Ucraina da parte russa nel 2014 e 2022. La NATO è rimasta quindi molto rilevante, tanto che altri Paesi come Finlandia e Svezia hanno deciso di aderirvi, perché utile ad alcuni degli interessi nazionali e di sicurezza dei suoi stati membri, in primis gli Stati Uniti ed i principali alleati.

Dall’altro lato, il presidente americano ha il potere, entro certi limiti costituzionali, di cambiare le priorità e gli impegni della politica estera e di difesa del proprio Paese. Nonostante una forte istituzionalizzazione dell’Alleanza atlantica che lega a vari livelli le forze armate alleate da oltre 75 anni, condizione unica nella storia mondiale, la NATO rimane appunto un’alleanza dalla quale la potenza leader può in teoria disimpegnarsi, con effetti drammatici sulla sicurezza nazionale e collettiva degli alleati europei.

Bluff di Trump e “all-in” di Putin

Non si tratta del bluff di uscire dal Trattato di Washington, atto che richiederebbe un voto nel Congresso statunitense quasi impossibile da superare. Ma si tratta ad esempio di voler più che raddoppiare la soglia concordata del 2% del PIL da investire nella difesa, e al tempo stesso ritirare parte delle truppe o delle testate nucleari tattiche americane dall’Europa, mentre si comunica alla Russia e agli alleati che gli Stati Uniti non risponderanno all’attuazione dell’articolo 5 sulla difesa collettiva da parte di stati membri che non rispettino gli impegni comuni sulla spesa nella difesa.

Se l’amministrazione Trump diminuisse davvero la presenza militare e politica americana nell’Alleanza atlantica al di sotto della soglia di guardia, e se Putin da consumato giocatore di poker rilanciasse all-in con un attacco armato a un Paese baltico, la NATO si troverebbe a un bivio: o combattere le forze russe per liberare lo stato membro attaccato, oppure passare la mano e lasciare il tavolo della sicurezza euro-atlantica, abbandonando l’Europa all’influenza russa – e al collasso dell’UE che non sarebbe in grado di reagire di fronte all’occupazione militare del territorio di un suo stato membro.

Il 5% del PIL nella difesa è una boutade, ma il 2% è superato

La posta in gioco è dunque altissima per la NATO e per l’Europa, ed è alla luce di ciò che vanno valutate le schermaglie tattiche, i bluff e i rialzi tra Washington e le capitali alleate, che accompagneranno i prossimi mesi e anni – a partire dalle dichiarazioni sullo spendere il 5% del PIL nella difesa.

E’ bene ricordare, in una prospettiva storica più ampia di un tweet, che durante la Guerra Fredda i Paesi europei membri della NATO hanno speso per decenni oltre il 3% del proprio PIL nella difesa per dissuadere Mosca dall’attaccare la Germania ovest. Dal vertice del 2023 a Vilnius, di nuovo a poche decine di chilometri dalle truppe russe, gli alleati hanno concordato che il 2% è d’ora in poi la soglia minima, già raggiunta da 23 alleati su 32 e ampiamente doppiata da Paesi come la Polonia che nel 2024 ha speso il 4.7% del proprio PIL nella difesa. L’aumento della spesa militare non riguarda solo l’Europa orientale: il Regno Unito, che notoriamente non confina con la Russia, secondo gli impegni del governo laburista punta al 2.5% in pochi anni. In altre parole, si tratta di una necessità strutturale nel Vecchio Continente causata soprattutto dalla doppia invasione russa dell’Ucraina, prima nel 2014 e poi dal 2022 con la guerra tuttora in corso, e in misura minore dalla conflittualità in Medio Oriente e Africa – dove l’Italia è impegnata in missioni militari di stabilizzazione – e dalla crescita della potenza militare cinese.

Lo scorso dicembre il nuovo Segretario Generale NATO Mark Rutte aveva avvertito gli alleati europei che dovranno investire ben più del 2% se vogliono mantenere pace, sicurezza e stabilità in Europa, e in definitiva il loro modello politico e sociale alternativo a quello russo e cinese. Non a caso Rutte ha fatto riferimento proprio al 3% speso dagli europei durante la Guerra Fredda per vincerla.

Nel frattempo da Washington un’amministrazione repubblicana coesa intorno a Trump e alla sua linea ha iniziato a mandare segnali riguardo al fatto che gli obiettivi NATO quanto a budget per la difesa vanno fortemente rivisti al rialzo: gli alleati non pensino di sedersi al tavolo con il nuovo presidente senza un chip adeguato. Questo è il leit motive, prevedibile già a novembre, alla base delle dichiarazioni di Trump sull’Alleanza atlantica, al netto della tattica negoziale di ventilare cifre più alte come il 5% per attestarsi a un livello intermedio.

Le carte in mano ai Paesi europei

La partita è resa più complessa dal fatto che non è giocata tra la NATO e Trump, ma tra quest’ultimo e altri 31 alleati, alcuni dei quali cercano un minimo di gioco di squadra. Non a caso i ministri della difesa di Francia, Germania, Italia, Polonia e Regno Unito si sono riuniti lo scorso autunno, insieme a Rutte e Zelenski, per valutare il da farsi, e questo formato a cinque si ripeterà probabilmente nel 2025. Ogni Paese però ha in mano carte diverse e gioca la sua partita nazionale.

Varsavia ha puntato da tempo e fortemente sulle proprie forze armate sia come prima linea di difesa contro Mosca, sia come carta da giocare per chiedere agli USA e alla NATO un impegno forte e stabile sul fianco orientale. Sulla stessa falsariga Lituania ed Estonia, che dopo le prime dichiarazioni del presidente Trump si sono impegnate a raggiungere il 5% del PIL nella difesa. Londra ha fissato l’obiettivo del 2.5% entro il 2028 perché condivide la valutazione della minaccia russa e cinese e per posizionarsi positivamente rispetto a Washington. Berlino deve ancora decidere se rendere strutturale il 2% di spesa militare raggiunto nel 2024 grazie allo Zeitenwende, come e quando, oppure se sia stata solo una mano una tantum. Parigi ha raggiunto stabilmente la soglia del 2%, e gioca come al solito in modo spregiudicato anche con poche carte in mano, riunendo Zelenski e Trump a Parigi nonostante in tre anni abbia donato all’Ucraina meno equipaggiamenti militari di altri grandi Paesi europei.

Roma gioca la partita nella NATO e con gli USA presentandosi al tavolo con uno stiracchiato 1.5% del PIL nella difesa, che è come andare con una doppia coppia ad una mano di poker dove tutti hanno almeno un tris. La  consonanza politica ed empatia personale con Trump costruite dalla premier Meloni, e testimoniate dalla sua visita in Florida al presidente in pectore a gennaio, insieme ai buoni rapporti con altri influenti membri dell’amministrazione come Elon Musk, certamente aiutano ma non bastano con un giocatore cinico come Trump. Sulle spese nella difesa il presidente repubblicano non farà grossi sconti per portare a casa il risultato, di fronte al suo elettorato e alle promesse elettorali di cui è fortemente convinto, di far spendere gli europei di più nelle loro forze armate nazionali, e quindi nel loro contributo alla sicurezza collettiva dell’area euro-atlantica finanziata finora principalmente dal contribuente americano tramite l’impegno USA nella NATO. È evidente che se il dibattito tra Stati Uniti ed Europa sulle spese della difesa si sposta dal 2% a oltre il 3%, restare fermi al 1.5% pone l’Italia in una posizione difficile. E visto che tutti gli altri Paesi UE hanno superato o supereranno in pochi anni il 2%, al tavolo transatlantico o europeo argomentazioni come lo scorporo delle spese nella difesa dal Patto di stabilità o l’inclusione nel computo di spese non militari lasciano il tempo che trovano.

La NATO guarda a est, l’Italia a sud

La questione di quanto gli alleati debbano investire nella difesa si intreccia inevitabilmente con quella di cosa fare come alleanza con il frutto di tali investimenti, ovvero le capacità militari nazionali. La grande maggioranza degli alleati europei ha le idee molto chiare al riguardo: deterrenza e difesa collettiva rispetto alla minaccia russa. Primum vivere deinde philosophari.  Il workshop dello scorso dicembre svoltosi allo IAI in partnership con l’ambasciata di Finlandia a Roma è stato esemplificativo al riguardo. Helsinki, entrata da neanche due anni nella NATO, guarda innanzitutto alla sicurezza del Nord Europa rispetto alla minaccia russa via aria, via terra con un confine lungo oltre 1.300 km, e via mare (compresa la dimensione subacquea) nel Baltico e nel corridoio Groenlandia-Islanda-UK attraverso cui passano i sottomarini russi per entrare nell’Atlantico e nei mari adiacenti all’Europa.  La posizione finlandese, così come quella svedese, si aggiunge all’ampio arco di Paesi che dal Canada al Regno Unito o alla Danimarca, passando ovviamente per Norvegia, Polonia e Paesi Baltici, ritengono il fianco orientale di gran lunga prioritario.

L’Italia guarda invece al Mediterraneo allargato, ma è quasi sola nella NATO a farlo. Tra gli altri importanti Paesi mediterranei, Francia e Turchia non vogliono l’alleanza atlantica impegnata in Africa o Medio Oriente, preferendo agire autonomamente. La Spagna è più preoccupata di Marocco e Mauritania che del Mediterraneo centrale o orientale, eppure ha giocato così bene le sue carte – tra cui un aumento del bilancio della difesa del 30% nel 2022-2024 – da ottenere la carica di Inviato Speciale NATO per il Vicinato Meridionale ambita e mancata dall’Italia. Né per il fianco sud si può contare in alcun modo significativo sugli Stati Uniti, che hanno iniziato a disimpegnarsi militarmente dal Nord Africa e Medio Oriente durante le scorse quattro amministrazioni, democratiche e repubblicane, e certo non si impegneranno con Trump per la stabilizzazione ad esempio della Libia o del Libano, aldilà di dichiarazioni estemporanee su Gaza e il Medio Oriente.

Ancora di più dall’insediamento del nuovo presidente americano, è giunta l’ora che l’Italia giochi la partita NATO su fianco est e fianco sud con le carte che ha davvero in mano, e non con quelle che spera di pescare da un mazzo che in realtà è finito. E vista la posta in gioco con Trump e Putin, non è più il momento dei bluff a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, né sull’aumento delle spese militari né su quanto l’Alleanza atlantica faccia, possa o voglia fare nel Mediterraneo allargato.

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