Il Sudan è un paese sconvolto da guerre civili da decenni. Tra queste il conflitto armato in Darfur, iniziato nel 2003, è stato il più mediatizzato a causa della grave crisi umanitaria che ha provocato nella regione. La presenza di numerose milizie, dei signori della guerra e di una dittatura durata 30 anni, ha impedito la creazione di uno stato centralizzato e la monopolizzazione dell’uso della forza. La deposizione del dittatore Omar al-Bashir nel 2019 ha portato all’accordo quadro di transizione volto a instaurare un regime democratico; tuttavia, la lotta per l’affermazione della leadership tra il capo dell’esercito e il suo vice ha portato allo scoppio di pesanti combattimenti.
La mancata transizione democratica e i signori della guerra
La rivoluzione sudanese del 2018-2019 mise fine alla dittatura militare di Omar al-Bashir, iniziata nel 1989. Nonostante la pressione civile per il cambio di regime e le massicce proteste, al-Bashir venne deposto tramite un colpo di stato orchestrato da un’alleanza tra il capo dell’esercito regolare Abdel-Fattah Al-Burhan (SAF) e le forze paramilitari (RSF) sotto il comando di Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hamedti”. I due leader, reduci della dittatura di al-Bashir, combattono ora per la leadership politica e il controllo economico del paese. Dal 15 aprile entrambe le fazioni sono protagoniste di pesanti combattimenti in aree urbane densamente popolate, adiacenti a istituzioni governative critiche, nella capitale Khartoum e altri centri nevralgici. Nonostante i tentativi di tregua, l’agenzia Onu per gli affari umanitari (OCHA) riporta che le conseguenze per i civili sono devastanti, con centinaia di morti, infrastrutture e ospedali fuori uso, e carenza di beni di prima necessità.
I combattimenti sono scoppiati dopo mesi di negoziati tra le forze armate, i partiti politici e la società civile del Sudan – sostenuti da un’alleanza di stati occidentali e dall’Unione Africana. Le parti si preparavano a firmare un nuovo accordo politico volto a formare un governo, che avrebbe ripreso il processo di transizione democratica: lo scopo principale era reinstallare la componente civile nel Consiglio di Transizione e concretizzare gli Accordi di Juba. Questi ultimi, indispensabili per perseguire la smilitarizzazione del Paese, prevedono lo smantellamento delle decine di gruppi armati e delle forze paramilitari, nonché la loro conseguente integrazione in un esercito nazionale. Tuttavia, la frammentazione dell’apparato di sicurezza e il rifiuto di Hamedti di ricondurre le forze paramilitari RSF – composte da circa 100mila unità – sotto l’egida delle forze regolari, ha portato alla definitiva rottura tra i due generali.
I combattimenti in Sudan hanno genesi nella dittatura di al-Bashir
Dopo la deposizione manu militari di al-Bashir, venne instaurato un governo di transizione civile-militare che fornì una façade democratica alle élites militari. Infatti, secondo l’accordo del 2019 tra al-Burhan e l’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento – principale alleanza dei partiti civili –, il generale avrebbe dovuto lasciare la presidenza collegiale del Consiglio Sovrano di Transizione il 19 novembre 2022, per cederla a un leader civile. Proprio un mese prima del passaggio di carica, l’ennesimo colpo di stato e l’annullamento dell’accordo hanno posizionato i due leader militari nelle prime due cariche de facto dello stato. Burhan ha agito come vero rappresentante del paese, allineando la politica estera agli Usa, principale finanziatore degli aiuti per il paese, firmando accordi di normalizzazione con Israele e mantenendo rapporti diplomatici con l’Egitto e il Golfo. Nel frattempo, il suo secondo Hamedti ha portato avanti un piano indipendente, stringendo alleanze con gruppi ribelli in Darfur, nel Sud Kordofan e con i mercenari Wagner – in seguito alla promessa di concessione per una base navale ai russi sul Mar Rosso –, costruendo quindi un vasto impero economico basato sul traffico di oro ed estrazione del petrolio.
Il Sudan di oggi è il lascito dell’era al-Bashir, che ha visto due maggiori conflitti e posizionato il Sudan tra i Paesi più critici nell’ambito degli indici della sicurezza umana. La seconda guerra civile sudanese, che ha portato all’indipendenza del Sudan del Sud nel 2011, ha provocato 1,9 milioni di morti e 4 milioni di rifugiati, qualificandosi come una delle guerre più sanguinose dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il conflitto del Darfur tra il governo, i suoi alleati miliziani e i gruppi ribelli, iniziato nel 2003, ha causato, secondo le stime delle Nazioni Unite, 300.000 morti e circa 2,7 milioni di civili sfollati. L’ex presidente al-Bashir è stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e genocidio; mentre le operazioni di controinsorgenza erano guidate ai tempi dal generale Dagalo, oggi a capo delle RSF, che si è macchiato di violazioni dei diritti umani, originando carestie ed epidemie nella regione.
Una nuova crisi umanitaria
Mentre una grande missione militare con operazioni coordinate da vari stati europei ha portato in salvo centinaia di civili stranieri, l’OCHA ha definito la situazione umanitaria in Sudan “catastrofica”. Prima dello scoppio dei combattimenti, circa 15,8 milioni di persone –1/3 della popolazione sudanese – erano fortemente dipendenti da aiuti umanitari, tuttavia molte ong e agenzie Onu hanno dovuto sospendere le operazioni a causa del conflitto. Secondo i dati delle agenzie Onu aggiornati al 2023, 11,7 milioni di persone si trovano in condizioni di insicurezza alimentare acuta (IPC3+), esacerbata dal cambiamento climatico e dalla siccità, oltre 3 milioni di persone sono sfollate all’interno del paese (OCHA), e oltre 1,1 milioni di rifugiati, tra cui circa 814.000 dal Sud Sudan (UNHCR) sono presenti nel paese. I combattimenti hanno provocato un nuovo esodo di massa, con stime che parlano di 270 mila rifugiati in fuga verso i paesi di vicinato più poveri, tra cui Ciad ed Egitto, e il ritorno di circa 100 mila rifugiati in Sud Sudan.
Ad oggi, ci sono tutti gli ingredienti per un’ulteriore escalation di violenza e instabilità in Sudan, causata da una diminuzione delle opzioni per contenere le ambizioni delle due fazioni, militari (SAF) e paramilitari (RSF), che hanno amplificato il loro potere dopo la caduta di al-Bashir. Il rischio, per un Paese cerniera come il Sudan, è quello di un’ulteriore divisione del paese tra i due contendenti militari tramite il rispettivo controllo di blocchi territoriali. L’assenza della stabilità politica apre inoltre le porte alla proliferazione del terrorismo, organizzazioni criminali, sfruttamento delle risorse naturali e continue violazioni dei diritti umani.
Questo articolo, a cura di Ilona Zabrytska, è stato scritto in collaborazione da Orizzonti Politici e Affari Internazionali, la rivista di IAI, nell’ambito del progetto sulle crisi umanitarie nel mondo
Foto di copertina EPA/MOHAMED MESSARA