Spese militari al 2%: non scherzare col fuoco

Poteva sembrare, e molti lo speravano, che l’aggressione russa all’Ucraina avesse consolidato anche in Italia la consapevolezza che, per allontanare lo spettro della guerra, uno degli strumenti tradizionalmente più efficaci rimanesse quello della deterrenza. In parallelo, ovviamente, con i sistemi di governance del sistema politico internazionale che, però, negli ultimi decenni sono stati progressivamente resi ancora più deboli dallo scarso rispetto degli impegni e dalla limitata capacità di assumere e/o di far rispettare le decisioni che via via sono state prese.

Il principio dell’Antica Roma “Si vis pacem para bellum” è tornato, quindi, di attualità. L’obiettivo, oggi come allora, non è quello di combatterla, ma di convincere il potenziale aggressore che il prezzo da pagare sarebbe comunque altissimo proprio grazie alle capacità di difesa dell’aggredito e dei suoi alleati e sostenitori.

Il pacifismo italiano

Per ironia della storia è proprio l’Italia il paese in cui questo principio è stato più sistematicamente disatteso. Le ragioni sono molteplici e complesse, ma una è emersa da sempre con particolare chiarezza: una diffusa immaturità di una vasta parte della nostra opinione pubblica e conseguentemente del mondo politico. Alla base vi è un diffuso “pacifismo”, non è chiaro quanto ideologico e quanto strumentale, basato sull’illusione che, mettendo la testa nella sabbia, si possano evitare le conseguenze delle tempeste che agitano lo scenario internazionale e che, in sintonia coi cambiamenti climatici, sono diventate più violente e imprevedibili.

A questo si somma, però, anche una diffusa irresponsabilità del mondo politico, alla perenne ricerca di un maggiore consenso elettorale, costi quello che costi, come confermano alcune recenti prese di posizione. Le spese per la difesa diventano, troppo spesso, uno dei terreni privilegiati dello scontro politico: come tutti gli investimenti destinati alla “prevenzione” sono elettoralmente svantaggiati rispetto a quelli socialmente fruibili e, per di più, sono legati a scenari a cui nessuno vuole pensare.

Solo una classe dirigente lungimirante potrebbe assicurare un compromesso accettabile, facendone un terreno neutrale in cui muoversi con una logica bipartisan. Così è avvenuto in qualche momento anche in Italia, l’ultima volta il 16 marzo dello scorso anno quando il 93% dei parlamentari votò alla Camera un ordine del giorno che impegnava il governo “ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del Pil, dando concretezza a quanto affermato alla Camera dal Presidente del Consiglio il 1° marzo scorso e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione, a tutela degli interessi nazionali”.

Il tempo scorre e l’Italia resta indietro

In realtà il Ministro della Difesa Guerini aveva chiarito il 30 marzo che l’impegno, assunto nel 2014 in sede Nato e poi ribadito nel 2018 in sede Ue, sarebbe stato raggiunto solo nel 2028, stante la bassa base di partenza, il ritardo accumulato in sette anni e la situazione economica generale. Certo, sul piano dell’affidabilità questa decisione non è stata indolore, ma era bilanciata dal forte impegno nelle missioni internazionali e dalla chiara e risoluta posizione assunta a sostegno dell’Ucraina.

Per rispettare la nuova scadenza che ci siamo dati autonomamente ora non abbiamo più tempo da perdere: cinque anni volano se non cominciamo subito. Si può stimare che per raggiungere l’obiettivo del 2%, l’anno prossimo si sarebbero dovuti stanziare complessivamente quasi dieci miliardi euro in più (anche considerando i finanziamenti esterni al Ministero della Difesa).

Per di più questo aumento è, nel frattempo, diventato ancora più urgente per due decisioni assunte dall’Italia: il rinvio di dieci anni (fino al 2034) della prevista riduzione delle Forze Armate deciso da Governo e Parlamento nell’agosto dello scorso anno e la necessità di ricostituire e rafforzare le dotazioni e le scorte di equipaggiamenti e munizioni a seguito delle cessioni fatte all’Ucraina per supportarne la difesa e del nuovo più minaccioso quadro strategico internazionale.

I possibili scenari futuri

Sul breve periodo, il maggiore problema è legato alla necessità di garantire adeguate risorse ai programmi di sviluppo e acquisizione che devono garantire, insieme, un veloce rafforzamento delle attuali capacità militari (facendo tornare operativi tutti gli equipaggiamenti disponibili e comperando quelli mancanti) e un loro miglioramento con l’introduzione dei sistemi di nuova generazione che si stanno preparando. Per farlo dovrebbe essere leggermente aumentata l’attuale quota del 30% delle spese militari per gli investimenti, mentre dovrebbe essere fortemente incrementata quella destinata all’esercizio, ad oggi di poco superiore al 10%. In caso contrario è impensabile garantire l’efficienza degli equipaggiamenti (vecchi e nuovi) e l’addestramento del personale. Per inciso, mezzi necessariamente più sofisticati richiederanno maggiore attenzione per la manutenzione, riparazione, aggiornamento tecnologico, aggravando e attuali carenze.

Sul medio periodo peserà, invece, il ritardo nel ridimensionamento quantitativo delle Forze Armate che impedirà di ridurre l’attuale quota di quasi il 60% di spese per il personale. Anzi, l’aumento dell’età media e la necessità di impedire che la parte più qualificata sia attirata dal mercato del lavoro civile, rischieranno di portare ad un suo ulteriore incremento.

Anche di qui la necessità di un aumento del Bilancio della Difesa già a partire dall’anno prossimo, inserendolo in una prospettiva quinquennale di crescita graduale. Non si tratta solo si salvaguardare la credibilità nazionale con gli alleati e gli amici. Si rischia di compromettere la nostra capacità di assicurare la difesa e la sicurezza del nostro Paese.

Foto di copertina ANSA/GIUSEPPE LAMI

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