Un nulla di fatto sul cessate il fuoco: il summit tra il Ministro degli Affari Esteri Sergey Lavrov e la sua controparte ucraina Dmytro Kuleba, avvenuto in queste ore ad Antalya, nel sud della Turchia, all’interno dei saloni del resort a 5 stelle Regnum Carya, si è concluso con un sostanziale fallimento.
L’impressione è che Lavrov non avesse il mandato di negoziare e che fosse presente all’incontro solo per ascoltare. Il ministro ucraino ha provato a portare avanti nella sua discussione le questioni umanitarie, dopo l’ attacco all’ospedale pediatrico di Mariupol, assediata dall’esercito, ma, ha detto alla stampa al termine dell’incontro “la mia impressione è che la Russia cerca solo la resa degli ucraini”.
Il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavusoglu ha provato a riassumere l’incontro, precisando che ci saranno altre occasioni di negoziato e che domani sarà ad Antalya il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg per incontrare il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
Turchia in bilico
Nonostante, dunque, ci fosse grande attesa per l’incontro del 10 marzo, le attese sono state deluse, mentre viene ribadito che i colloqui di Antalya non sostituiscono in alcun modo quelli in Bielorussia. La mediazione turca comincia così ad arrancare e la Turchia di Erdoğan resta in bilico tra due rivali, nonostante sia da tempo al lavoro per offrire una mediazione tra Russia e Ucraina, ben prima del 24 febbraio.
Lo sforzo di Ankara sembra essere dettato dal tentativo di provare a non farsi schiacciare nella contesa geopolitica tra Putin e la Nato: conserva così un buon rapporto con Mosca (anche da un punto di vista economico ed energetico), come ha dimostrato nel conflitto siriano, con l’acquisto degli armamenti russi S400, e nelle varie fasi del conflitto tra azeri e armeni. Ma allo stesso tempo, Erdoğan mantiene uno standing totalmente filo Nato, fornendo a Kiev droni armati (aspetto questo che ha fatto infuriare Putin) e dimostrando uno slancio pacifista.
In questa shuttle diplomacy in stile turco, Ankara si offre da mediatore tra i due contendenti, dopo un primo rifiuto già registrato a febbraio, quando però il conflitto non era ancora deflagrato.
L’imprevedibilità turca
Per una Turchia già abbondantemente provata dalla crisi finanziaria, con un’inflazione alle stelle e che ha toccato i livelli più alti mai sfiorati dal 2002 (anno in cui si insediò al potere Erdogan e il suo AKP), e con le elezioni generali in Turchia alle porte, la prosecuzione del conflitto tra Ucraina e Russia rappresenterebbe un pericolo insostenibile: sarebbe così costretta a dover scegliere tra uno dei due attori in guerra, rischiando di perdere il vantaggio acquisito di mediatore.
La Turchia di Erdoğan resta un attore a tratti imprevedibile in politica estera, pronta a prendere decisioni in autonomia e senza consultazioni, fatto che a Biden piace sempre meno e che potrebbe offrire a Putin un pretesto per alzare (ancora di più) il livello di scontro. Gli Stati Uniti, d’alto canto, ricordano come la Turchia, durante la crisi georgiana del 2008, vietò alle navi americane di entrare nel Mar Nero.
Il fronte sud e la Turchia game changer
È inoltre coinvolta a doppio filo nel conflitto tra Mosca e Kiev, per via del fronte sud e dell’accesso al Mar Nero. A pesare, è la Convenzione di Montreaux del 1936, che regola l’accesso alle acque attraverso gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli e il traffico marittimo, con limitazioni che riguardano il passaggio di navi militari appartenenti a stati belligeranti in tempo di guerra.
Ankara sostiene ufficialmente l’indipendenza dell’Ucraina e l’integrità territoriale del paese. Erdoğan ha denunciato l’annessione russa della Crimea del 2014, schierandosi a favore dei tatari di Crimea (un gruppo etnico turco), mentre Mosca risponde chiedendo ad Ankara di convincere gli ucraini a mantenere gli impegni di Minsk. Eppure, la posizione ambigua di Ankara su molte questioni di politica estera ha notevolmente arricchito il linguaggio in uso in politica estera per definirne il ruolo. Sono stati infatti usati dagli osservatori diversi termini per descrivere la complessa dinamica delle relazioni russo-turche: il “conflitto cooperativo”, “l’accordo sul disaccordo”, o la difficile negoziazione della “compartimentazione”, ossia della volontà di promuovere il dialogo in alcune sfere, pur chiudendo gli occhi di fronte a contraddizioni inconciliabili in altre.
Come ha provato a fare nel conflitto tra azeri e armeni nell’autunno del 2020, ora la Turchia prova a divenire game changer nella guerra tra Russia e Ucraina, con un’iniziativa audace e rischiosa in grado di alterare il panorama strategico, creando nuove possibilità e costringendo gli attori coinvolti a ripensare le proprie posizioni.
Tra chiesa ortodossa e sanzioni
Un aspetto da non tralasciare è il ruolo della Chiesa ortodossa: Ankara ha infatti appoggiato la scelta del patriarcato ecumenico di Costantinopoli favorevole alla decisione della chiesa ortodossa di Kiev di separarsi da Mosca. Tale tentativo di autocefalia ha irritato la Russia, che si vedrebbe diminuire la propria forza.
Volendo però sposare una posizione nuovamente conciliatoria con la Russia, Ankara sembra non avere intenzione di imporre sanzioni contro Mosca: Cavusoglu lo ha ribadito chiaramente in diretta tv durante una delle sue ultime interviste sul canale Haberturk.
Erdoğan ha dunque una serie di buone ragioni (soprattutto economiche) per lavorare alla de-escalation del conflitto: la guerra ha fatto crollare il rublo, e questo rappresenta un fatto destinato a influenzare la Turchia, dipendente dalla Russia per le entrate che derivano dal turismo, dal mercato immobiliare e dalle esportazioni di beni agricoli. Un’impennata dei prezzi dell’energia avrebbe inoltre un impatto ancora più devastante sulla popolazione turca, i cui redditi e risparmi sono già stati divorati dall’inflazione incontrollata degli ultimi mesi.
Foto di copertina EPA/CEM OZDEL