Nel suo primo anno di presidenza Joseph R. Biden si è concentrato soprattutto sulle sfide interne, a partire dalla gestione della pandemia e il rilancio dell’economia. Tuttavia il presidente aveva anche promesso di riportare gli Stati Uniti al centro degli affari internazionali dopo quattro anni di generale disimpegno sotto Donald Trump. A un anno di distanza, non si può dire che Biden abbia avuto pieno successo, sebbene in alcuni casi non siano mancati progressi.
Il ritorno al tavolo del clima
Biden non ha ereditato da Trump gravi crisi internazionali. Tuttavia le politiche dell’ex presidente avevano reso molto più complicata la gestione di diverse questioni internazionali, dalla governance globale ai rapporti con Cina ed Europa, dalle relazioni con l’Iran alla guerra in Afghanistan.
Con Biden gli Stati Uniti sono tornati molto attivi nei consessi multilaterali. Sono rientrati nell’Accordo di Parigi sul clima e hanno raggiunto un’importante intesa con gli europei per la riduzione delle emissioni di metano. La difficoltà dell’Amministrazione Biden nell’adottare un’ambiziosa agenda climatica interna ne ha però ostacolato gli sforzi per ottenere stringenti impegni di riduzione dei gas serra durante la conferenza di Glasgow. Allo stesso modo, lo screditamento della democrazia americana culminato nell’assalto al Campidoglio e nella delegittimazione dell’elezione di Biden stesso ne ha indebolito l’agenda di promozione della democrazia. Né la sua Amministrazione è stata capace di organizzare una risposta globale alla pandemia, limitandosi a una, poi rivelatasi velleitaria, proposta di sospendere temporaneamente i brevetti per i vaccini. Una vittoria molto significativa dell’Amministrazione Biden è stata invece l’approvazione da parte del G20 e dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) di un’imposta minima globale sulle grandi compagnie dell’high tech, che dovrebbe ridurne la capacità di beneficiare di regimi fiscali più generosi.
L’asse sino-americano
Ma la grande priorità di Biden è stata la relazione con Cina, che sotto Trump era diventata molto più conflittuale. Biden ha mantenuto lo stesso indirizzo ma ha adottato un approccio multilaterale contrario all’unilateralismo aggressivo del predecessore. Ha elevato al rango di vertice il ‘Quad’, un forum di dialogo a tutto campo tra Usa, Giappone, Australia e India, concluso il patto di sicurezza ‘Aukus’ con Regno Unito e Australia (a cui gli Usa venderanno sottomarini nucleari), intensificato il dialogo con i paesi del Sudest asiatico e rassicurato Taiwan del sostegno americano in caso di aggressione cinese. Si è unito agli alleati europei nell’adottare sanzioni legate al rispetto dei diritti umani e li ha persuasi a mettere la competizione economico-tecnologica cinese al centro dell’agenda di un nuovo strumento transatlantico, il Consiglio Usa-Ue su Tecnologia e Commercio.
La cooperazione ritrovata in Europa
Con gli europei non sono mancati i problemi, a partire dallo scarso coordinamento sul ritiro dall’Afghanistan e la significativa (ma breve) crisi con la Francia, furiosa perché l’accordo Aukus ha spinto l’Australia a cancellare un precedente contratto per l’acquisto di sottomarini francesi. Ma il trend generale nella relazione transatlantica è stato positivo. C’è stato un avvicinamento su clima, imposta minima globale e Cina e sono state revocate o sospese le tariffe adottate durante la presidenza Trump.
Soprattutto l’Amministrazione Biden si è coordinata estensivamente con gli alleati europei nella risposta alla minaccia di invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ha definito con la Nato una serie di misure distensive sul fronte del controllo degli armamenti e la cooperazione militare da presentare alla Russia (con la quale aveva peraltro già esteso l’accordo di riduzione delle armi nucleari New Start) e concordato con l’Ue una rappresaglia economica in caso di escalation in Ucraina.
L’incognita sulle trattative del nucleare
Un altro fronte su cui la collaborazione transatlantica è ripresa riguarda la questione nucleare iraniana, l’eredità più pesante lasciata da Trump a Biden. Nel 2018 l’ex presidente aveva abbandonato l’accordo tra l’Iran e sei potenze – Francia, Germania, Regno Unito, Cina, Russia e Usa più l’Ue (E3/Ue+3) – che aveva posto il programma nucleare iraniano sotto limiti stringenti e intrusive ispezioni Onu. In risposta, l’Iran non solo ha ripreso attività nucleari proibite, ma ha aumentato le sue dotazioni balistiche ed è diventato più aggressivo, arrivando anche a scontrarsi militarmente con gli Usa.
Biden e l’Iran hanno negoziato per mesi le modalità di ritorno degli Usa nell’accordo e dell’Iran al rispetto dei suoi obblighi. Prima che fosse trovata un’intesa a Teheran si è però insediato un nuovo, più intransigente governo dominato dai conservatori. Le trattative sono riprese dopo cinque mesi di pausa, durante i quali l’Iran ha continuato a espandere il programma nucleare. Se le trattative dovessero fallire, Biden non avrebbe che due opzioni: accettare che l’Iran raggiunga la ‘soglia’ nucleare (abbia cioè la capacità per costruirsi un arsenale in brevissimo tempo) o decidersi per un bombardamento mirato del programma nucleare iraniano, senza però garanzie di poterlo distruggere e rischiando un conflitto regionale, dal momento che l’Iran mobiliterebbe i suoi alleati in Iraq, Libano, Siria e Yemen. Biden potrebbe pagare a caro prezzo, dunque, la cautela con cui si è mosso inizialmente, rifiutandosi di non solo di riportare subito gli Usa nell’accordo ma anche di fare gesti distensivi nei confronti degli iraniani, come pure lo avevano sollecitato gli alleati europei.
La disfatta a Kabul
Le questioni discusse finora sono aperte e pertanto una valutazione complessiva è impossibile. Diverso è il caso dell’Afghanistan. La ripresa del potere da parte dai Talebani ha tolto ogni illusione sul fatto che il ritiro americano, originariamente concordato coi Talebani da Trump ma eseguito da Biden, sia un’inequivocabile sconfitta. Il presidente ha calcolato che ignorare l’impegno preso dal suo predecessore avrebbe comportato la ripresa degli attacchi contro le forze Usa e reso necessario pertanto investire ulteriori risorse in un paese strategicamente secondario.
A Biden si rinfaccia più di aver fallito l’attuazione del ritiro che la decisione di ritirarsi. Questa critica è legittima solo se si accetta che l’Amministrazione Biden (e quelle precedenti) avrebbe dovuto negoziare coi Talebani il passaggio di potere invece che i termini del ritiro delle truppe Usa, lasciando che il governo internazionalmente riconosciuto di Kabul continuasse la guerra da solo. La conclusione è che, politicamente e militarmente, Biden non aveva buone opzioni. Il presidente si è deciso per quella più drastica in modo da liberare preziose risorse diplomatico-militari da impiegare in fronti strategicamente primari come l’Indo-Pacifico. È possibile che nel lungo periodo sia una decisione favorevole per gli Usa. Per ora non lo è per l’Afghanistan, che senza gli aiuti internazionali rischia una catastrofe umanitaria, né per lo stesso presidente, che ha visto la sua popolarità calare drasticamente.
Il bilancio tra luci e ombre
In conclusione, nel primo anno di politica estera di Biden ci sono più ombre che luci. Il presidente Usa ha ottenuto risultati positivi ma modesti su clima e democrazia, mentre l’imposta minima globale deve ancora essere ratificata dai membri Ocse. Il ritiro dall’Afghanistan ne ha minato la credibilità interna e intaccato il profilo internazionale. Pur recuperando il consenso degli alleati alle politiche Usa verso Cina, Russia e Iran, non ha risolto nessuna delle principali questioni pendenti. Potrebbe però aver messo le basi per una loro gestione più organica. In un mondo caratterizzato da crescente rivalità multipolare, non è detto che debba considerarsi un fallimento.
Foto di copertina Brendan Smialowski / AFP