Capitol Hill: la ferita aperta della Democrazia americana

La presidenza di Joseph R. Biden si è complicata prima ancora del suo insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2021. Appena due settimane innanzi si era assistito al primo tentativo nella storia degli Stati Uniti di sovvertire con il sotterfugio, le menzogne e finanche la violenza il pacifico passaggio di potere tra un’amministrazione e l’altra.

L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, quando una folla di dimostranti è irrotta nella sede del Congresso (causando diverse vittime), è stato il risultato di una campagna politica e legale con la quale l’allora presidente Donald Trump ha tentato di invalidare l’elezione di Biden sul piano legale e delegittimarla su quello politico.

I Repubblicani fedeli a Trump

Le iniziative legali intraprese dall’entourage di Trump si sono risolte in un nulla di fatto, se si eccettuano alcuni isolati risultati di natura procedurale. L’assalto al Campidoglio, che seguì un comizio a poche centinaia di metri in cui il presidente usò una retorica incendiaria che sembrò dare il la alle violenze (per ore Trump si rifiutò di esortare i manifestanti a tornare a casa), sembrava aver affossato anche la campagna di delegittimazione.

Ma non è stato così. L’attacco alla sede del Congresso non è stato sufficiente a dissuadere la maggioranza di Repubblicani membri di quello stesso Congresso a votare contro la certificazione dell’esito dell’elezione presidenziale (che tra l’altro è un atto puramente formale, visto che la vera certificazione avviene a livello di stato). Tecnicismi di nessun conto furono addotti a motivare la scelta, che aveva in realtà una ragione politica: nell’elettorato repubblicano Trump godeva, e gode ancora, di un favore così forte che metterglisi contro significa rischiare di compromettere la propria carriera politica.

Questa è la stessa motivazione per la quale la quasi totalità dei Repubblicani alla Camera – 197 su 207 totali – votò contro l’impeachment di Trump (il secondo) per “incitamento all’insurrezione” e il Senato mancò di raggiungere la supermaggioranza di due terzi (67 su cento) necessaria a deporre il presidente. Si fermò a 57, di cui solo sette Repubblicani.

Nei mesi successivi i Repubblicani che si erano opposti a Trump hanno subito attacchi dall’interno del partito. Il caso più esemplare ha riguardato Liz Cheney, rappresentante del Wyoming e una delle voci più critiche dell’ex presidente, che è stata oggetto di una violenta campagna diffamatoria sfociata nella sua destituzione da presidente della conferenza dei Repubblicani alla Camera (sostanzialmente la numero 3 nella leadership del partito alla Camera). Il leader dei Repubblicani alla Camera, Kevin McCarthy, che aveva pubblicamente riconosciuto le responsabilità di Trump nei fatti del 6 gennaio, ha presto invertito la rotta ed è tornato a sostenere l’illegittimità di Biden, implicitamente se non apertamente.

“The Big Lie”

La campagna di delegittimazione dell’elezione del 2020 avviata da Trump infatti non si è mai arrestata. Al contrario, ha messo radici profonde nell’elettorato repubblicano – oltre il 60 percento del quale ritiene l’elezione fraudolenta – e conseguentemente influenza le posizioni del partito.

Non a caso McCarthy si è opposto alla costituzione di una commissione d’inchiesta bipartisan alla Camera sui fatti del 6 gennaio, adducendo come motivazione che i Democratici intendessero farne un uso politico. La commissione si è formata lo stesso (con la partecipazione di due Repubblicani ribelli, tra cui Liz Cheney), ma l’atteggiamento della leadership repubblicana ha fatto sì che sia vista dall’elettorato conservatore esclusivamente in chiave partigiana.

Per buona parte di elettori repubblicani infatti la ‘Grande Menzogna’ (The Big Lie, l’espressione con cui Trump si riferisce alle elezioni 2020) è diventata, come in 1984 di George Orwell, verità indiscussa e incontrovertibile. E la Big Lie non è solo un’operazione di propaganda. Ha fatto anche da sostrato ideale a una serie di misure potenzialmente antidemocratiche adottate in molti stati dove governano i Repubblicani.

Controllo politico sul voto

Le misure più comuni sono quelle che i critici solitamente definiscono di ‘soppressione’ o quanto meno restrizione del voto. Diciannove stati a guida repubblicana hanno approvato limitazioni al voto per posta (una soluzione largamente preferita dai Democratici nel 2020) e l’accorciamento dei tempi del voto anticipato (di nuovo una prassi preferita dall’elettorato progressista). Hanno anche proceduto all’eliminazione della registrazione (necessaria per votare negli Stati Uniti) automatica o lo stesso giorno delle elezioni o a più frequenti ‘purghe’ dei registri elettorali, due misure che storicamente interessano l’elettorato nero e quello latino, che tendono a votare democratico. Più preoccupanti sono le iniziative (introdotte in quattordici stati) volte a rafforzare il controllo politico delle autorità statali di supervisione e certificazione elettorale.

I Repubblicani sostengono che questa sia un’agenda di salvaguardia dell’integrità del voto. Tuttavia si tratta di misure che, in un modo o nell’altro, tendono a favorire i loro candidati. I Democratici ne sono persuasi, ma i loro sforzi di contrastare la propaganda della Big Lie non sono stati molto efficaci. Né i loro tentativi di adottare contromisure legislative hanno fatto strada. Un disegno di legge federale che proibirebbe o modererebbe l’effetto di buona parte delle misure adottate negli stati repubblicani è passato alla Camera ma si è arenato al Senato, dove mancano i 60 voti necessari ad aggirare l’ostruzionismo (filibuster) dei Repubblicani.

Sommato alla declinante popolarità di Biden (di poco superiore al 40 percento), l’insieme di queste misure sembra garantire una vittoria schiacciante dei Repubblicani alle elezioni di metà mandato (mid-term) del prossimo novembre.

Se avessero il controllo del Congresso nei due anni precedenti alle presidenziali del 2024, i Repubblicani avrebbero ancor meno incentivi a ricercare una narrazione comune del 6 gennaio 2021 di quanti ne hanno ora. Al contrario, avrebbero un interesse di parte ad avviare iniziative – inchieste e testimonianze parlamentari – che rafforzino la narrazione della Big Lie, più o meno esplicitamente. La polarizzazione politica, già consolidatasi, si cristallizzerebbe, così come la radicalizzazione del Partito Repubblicano.

La campagna per le primarie e poi quella presidenziale si svolgerebbe dunque su un terreno inaridito di contenuti politici, più simile a un campo di battaglia che un’arena elettorale. Un anno dopo la ferita del 6 gennaio non solo non si è rimarginata, ma si è infettata.

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