Perché i rapporti tra Cina e Australia restano tesi

In seguito ai due incontri di alto profilo avvenuti nelle ultime settimane si è parlato di un miglioramento dei rapporti tra Australia e Cina, progressivamente deterioratisi negli ultimi cinque anni.

Effettivamente, era dal 2019 che un primo ministro australiano non incontrava il presidente cinese Xi Jinping, mentre un incontro formale non avveniva addirittura dal 2016. Situazione simile per il ministro degli esteri australiano, la cui ultima visita ufficiale a Pechino risale al 2018.

Nonostante una normalizzazione dei rapporti politico-diplomatici sia accolta con favore dalla maggior parte degli esperti, le sostanziali differenze di vedute e di interessi non rendono verosimile un ritorno delle relazioni bilaterali al precedente livello di relativa cordialità.

Quest’ultimo è esistito fino al 2017, quando cioè la Cina non aveva ancora manifestato il suo intento di alterare lo status quo violando il diritto internazionale, e l’Australia manteneva ancora una politica estera scissa nelle sue componenti strategiche ed economiche, all’epoca precariamente imperniate rispettivamente su Stati Uniti e Cina.

Oggi, tuttavia, l’Australia è saldamente al fianco di USA e partner comuni nel tentare di arginare l’espansione e la politica assertiva di Pechino.

Le basi della precedente cooperazione

Canberra e Pechino stanno gradualmente riprendendo un dialogo congelato da tempo, tramite il quale è possibile ufficializzare i punti di tensione. Questo è possibile grazie ad una solida rete di iniziative bilaterali di alto livello, incluse una partnership strategica “comprensiva” e un accordo di libero scambio.

In linea di principio, i vantaggi di rapporti distesi sono evidenti. Tra i vari: l’enorme interscambio economico (un terzo dell’intero commercio globale australiano, pari a circa 280 miliardi di dollari australiani), la complementarietà delle due economie (i minerali australiani hanno permesso il colossale sviluppo economico cinese), e la rete comune di partner politico-economici nell’Indo-Pacifico.

Queste ed altre motivazioni hanno sostenuto per circa 20 anni rapporti bilaterali che chiudevano un occhio (più realisticamente due) sulle sostanziali differenze di vedute dei due Paesi. Queste sono poi emerse dal 2017, con lo sviluppo di una politica estera cinese più aggressiva e la conseguente strategia di bilanciamento da parte di Stati Uniti, Australia, e Giappone.

L’espansione cinese in Asia e Oceania

Al contrario dell’Unione Sovietica, la Cina è emersa come superpotenza all’interno di un sistema internazionale già ampiamente regolato, il che le ha lasciato due strade percorribili: sfruttare il sistema esistente oppure sfidarlo e tentare di cambiarlo progressivamente a proprio vantaggio. L’attuale classe dirigente cinese ha scelto quest’ultima opzione, ponendo dunque gli obiettivi di Pechino in diretto contrasto con quelli di Washington e, per estensione, Canberra.

Dal 2013 la Cina ha unilateralmente rivendicato gran parte del Mar Cinese Meridionale, costruendo o occupando in acque internazionali – spesso rivendicate da altri – una trentina di isole che ha poi militarizzato. Come altri Paesi, anche l’Australia sostiene il diritto internazionale tramite le FONOPs, ossia missioni per l’esercizio del diritto di navigazione e sorvolo in acque internazionali.

Sempre una decina di anni fa, Pechino ha lanciato la Belt and Road Initiative (BRI), ovvero la combinazione delle nuove vie della seta terrestri e marittime. Da un lato, la BRI è spesso efficace nell’incrementare i flussi commerciali, dall’altro vi sono fondamentali implicazioni geopolitiche. Tra le molte, vi è l’espansione di società controllate da Pechino con interessi strategici e talvolta spionistici, e l’obbligo di cedere infrastrutture strategiche qualora non si riescano a ripagare gli investimenti cinesi.

Il rischio della “trappola del debito” (debt trap diplomacy) è alto nell’Indo-Pacifico meridionale, quadrante vitale per l’Australia, dove quest’ultima esercita storicamente il ruolo di potenza regionale e principale fornitore di aiuti umanitari e allo sviluppo. Canberra è dunque apertamente allarmata dall’espansione della BRI.

La politica estera aggressiva di Pechino

A partire dal 2017, poi, l’Australia è stata oggetto di sempre più frequenti attacchi cibernetici da parte cinese, che hanno colpito agenzie governative, infrastrutture, e grandi società. Questi si sono accompagnati ad investimenti di natura sospetta e corruzione di politici e imprenditori australiani. Di conseguenza, Canberra ha progressivamente cercato di ridurre la propria dipendenza economica da Pechino diversificando i propri partner commerciali.

Quando, nel 2020, l’Australia ha proposto un’inchiesta internazionale per chiarire le origini della pandemia da Covid-19, la Cina ha risposto con nuovi attacchi diplomatici e con una serie di dazi sulle importazioni australiane, tuttora in essere.

Due anni dopo, nel Pacifico Meridionale, Pechino ha poi scelto di andare oltre ai consueti strumenti commerciali per aumentare la propria influenza, proponendo un accordo di sicurezza regionale a dieci Stati insulari nel pieno dell’emergenza pandemica. Il piano non ha avuto il successo sperato, ma la Cina ha comunque concluso accordi minori con Figi, Kiribati, Samoa, Tonga, Vanuatu, ed uno maggiore con le Isole Salomone, nel cuore della tradizionale sfera d’interesse australiana.

Il nuovo governo laburista australiano è riuscito a proporre un’analoga serie di visite bilaterali del ministro degli esteri Penny Wong, tuttavia la continua espansione dell’influenza cinese – ora in aree vitali per Canberra e tramite strumenti sia commerciali che strategici – è motivo di allarme e ha già stimolato maggiori investimenti politico-economici e militari nell’Indo-Pacifico. Questo anche in virtù della partnership tra Cina e Russia, altro Paese che mira ad alterare lo status quo, seppure con mezzi più brutali.

Verso la normalizzazione dei rapporti?

Il recente colloquio tra il primo ministro australiano Anthony Albanese e il presidente cinese Xi Jinping, e quello tra i due ministri degli esteri Penny Wong e Wang Yi (recentemente sostituito da Qin Gang), scongelano rapporti diplomatici pubblicamente sospesi da diversi anni, mirando ad una normalizzazione (non necessariamente ad un miglioramento) auspicata da tempo.

In seguito all’incontro con la sua omologa australiana, l’allora ministro degli esteri cinese ha sottolineato l’importanza dei rapporti bilaterali, nonostante solo sei mesi prima avesse paventato per l’Australia “conseguenze nefaste” se quest’ultima avesse continuato ad esercitare la libertà di sorvolo nelle acque internazionali del Mar Cinese Meridionale. In occasione del cinquantesimo anniversario dei rapporti diplomatici tra i due Paesi, Albanese e Wong hanno comunicato che l’Australia “mira ad una relazione stabile con la Cina, cooperando quando possibile, entrando in disaccordo quando necessario, e promuovendo gli interessi nazionali”.

In altre parole, la Cina non ha intenzione di deviare il recente e aggressivo corso della sua politica estera, e l’Australia non ha intenzione di rinunciare alla conseguente strategia di bilanciamento coordinata con Stati Uniti, Giappone, e altri partner.

La differenza sostanziale, ad oggi, è che i molteplici canali ufficiali sono di nuovo aperti. Nonostante la normalizzazione dei rapporti non possa influire sulle fondamentali differenze di vedute e di interessi che dividono i due Paesi, questo potrebbe ridurre la possibilità di nuove e repentine azioni unilaterali, storicamente dannose per il fragile equilibrio che lega Australia e Cina.

Foto di copertina EPA/MICK TSIKAS AUSTRALIA AND NEW ZEALAND OUT

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