Nel Nagorno-Karabakh la ‘pace ibrida’ non ha più garanti

La ‘pace ibrida’ che cristallizzava da tre anni il conflitto azero-armeno è venuta meno martedì 19 settembre, quando l’Azerbaigian ha aperto le ostilità bombardando massicciamente installazioni e infrastrutture militari dell’Esercito di Difesa dell’Artsakh. L’operazione per neutralizzare l’entità de facto indipendente e di etnia armena dell’Artsakh – contro ‘la politica di terrore deliberata e pianificata’, così come definita dal governo azero – è iniziata con il blocco del corridoio di Lachin nel dicembre 2023 e terminata nel pomeriggio del 20 settembre con la resa definitiva dell’enclave armena

Nove mesi di isolamento del corridoio di Lachin e della regione dell’Artsakh, hanno portato allo stremo 120 mila persone e sono così risultati strumentali al ripristino di un controllo politico effettivo sull’area. La scelta di Baku di agire deve essere letta come il compimento di una politica di unificazione territoriale da lungo perseguita, che, appellandosi inoltre a un linguaggio coniato a pretesto delle violenze di Mosca nello spazio post-sovietico, ha giustificato l’operazione come ‘ripristino dell’ordine costituzionale’ e ‘operazione anti-terrorismo’. 

Il governo azero ha dunque ottenuto, tramite la mediazione russa, e a sue piene pretese, un accordo per lo scioglimento e il completo disarmo delle forze armate e rimozione di tutte le attrezzature pesanti e le armi dall’Artsakh. Oggi, 21 settembre, l’Azerbaigian terrà colloqui con i rappresentanti dell’Artsakh per stabilire le garanzie sui diritti della popolazione di etnia armena.

Mentre il sostegno di Stati Uniti e Russia all’Armenia si limita a espressioni di ‘profonda preoccupazione’, è evidente come, a seguito dell’invasione dell’Ucraina, le capacità della Russia sono cambiate e Mosca ha lasciato il via libera alle pretese di Baku con l’intento di non alienarsi quest’ultimo e il suo stretto alleato turco, entrambi cresciuti di importanza strategica per il Cremlino dall’inizio della guerra in Ucraina lo scorso anno. 

L’umiliazione armena – il governo di Erevan infatti non è stato coinvolto nella stesura del cessate il fuoco –  segnerà un definitivo distacco del paese dall’influenza russa. Il presidente Pashinyan, che nella scorsa notte ha subito forti contestazioni, ha denunciato l’intento dell’Azerbaigian di trascinare il Erevan in guerra – Baku ha denunciato la presenza di forze militari armene in Nagorno-Karabakh, nonostante queste non siano più state rilevate nell’area – e ribadito di voler perseguire una politica che garantisca una duratura sovranità interna.

Non è la prima volta che la regione del Nagorno-Karabakh vede le forze armene e azere scontrarsi. Prima tra il 1988 e il 1994 gli armeni hanno preso il controllo di ampie porzioni di territorio e hanno costretto all’esodo di massa centinaia di migliaia di persone di etnia azera, radendo al suolo diverse città. Successivamente, nel 2020 l’Azerbaigian ha conquistato i territori intorno alla regione, lasciando l’exclave di etnia armena collegata all’Armenia da una striscia di terra, il Corridoio di Lachin.

Un’Armenia che guarda a Occidente?

Le potenze regionali sono state coinvolte nel conflitto nel corso degli anni creando un bilanciamento di interessi strategici nella regione tra Russia, Turchia e Iran. Tuttavia un sostanziale riposizionamento del governo di Pashynian – e dell’opinione pubblica armena – sta avvenendo da quando il leader del Paese ha dichiarato che la dipendenza da Mosca come unica fonte di sicurezza fosse un “errore strategico“. L’Armenia ha poi annunciato la possibilità di sottostare alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale e ha inviato per la prima volta aiuti umanitari in Ucraina, con la moglie di Pashinyan, Anna Hakobyan, in visita ufficiale a Kyiv. 

L’Armenia sta anche rivalutando il suo coinvolgimento nell’alleanza militare della CSTO, dopo aver accusato in precedenza il blocco di non reagire alle sue richieste di sostegno, ha ritirato il suo rappresentante presso l’organizzazione. Inoltre, Pashinyan ha dichiarato che la Russia sta “lasciando spontaneamente la regione“, giustificando così la scelta politica di ospitare un’esercitazione congiunta al governo statunitense per l’interoperabilità delle forze di peacekeeping, terminate (simbolicamente) nel giorno della capitolazione dell’enclave. E’ da evidenziare tuttavia che militarmente l’Armenia è organizzata come un alleato della Russia ed è improbabile che esca rapidamente da questa realtà, almeno per i suoi standard di armamento. Il recente allontanamento di Yerevan da Mosca e il suo avvicinamento a Washington e Bruxelles, sta inoltre mettendo a rischio la storica relazione con Teheran, con cui condivide un confine nel corridoio di Zanzegur, strategico anche per gli azeri. 

Dall’altro lato, Baku negli ultimi anni ha ricevuto un forte sostegno dalla Turchia e ha significativamente consolidato le proprie capacità militari. L’Azerbaigian svolge costantemente esercitazioni militari congiunte con la Turchia, e l’integrazione tra gli apparati militari era già evidente durante la seconda guerra del Karabakh quando la Turchia ha supportato l’Azerbaigian con la ricognizione radar, addestramenti e droni Bayraktar. 

Inoltre anche grazie all’exploit petrolifero e di gas naturale, l’Azerbaigian ha guadagnato notevole influenza politica presso i governi europei, Baku è infatti un’importante fonte di diversificazione dal gas russo per l’Europa, a cui è connesso tramite i gasdotti TANAP e TAP ( 3% del suo gas naturale). Non risulta quindi chiaro il messaggio dell’Ue per Baku, e nonostante una ‘condanna’ più vocale da parte di un gruppo di parlamentari europei, non sembra che si concretizzerà nessun provvedimento sanzionatorio e tantomeno alcun segnale univoco dei governi europei. 

Una lettura della regione dal punto di vista del diritto internazionale 

Da mesi l’Armenia accusa l’Azerbaigian di provocare una crisi umanitaria nella regione contesa. Durante i nove mesi di blocco la popolazione armena del Karabakh non ha ricevuto né cibo né medicine, e sul territorio manca il carburante per le ambulanze. Questo lunedì, finalmente, alcuni camion della Croce Rossa Internazionale sono riusciti ad entrare nella regione attraverso il corridoio di Lachin (dall’Armenia) e dalla strada Aghdam (dall’Azerbaigian). 

L’utilizzo della “fame indotta” come tecnica di pulizia etnica rientra tra gli atti riconosciuti come violazione dei diritti umani degli individui e di una popolazione. Come ha sottolineato l’ex procuratore della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, nel suo report, citando l’articolo 2 della Convenzione sul genocidio del 1948, “in Karabakh è un genocidio contro circa 120.000 armeni”. Tuttavia, in conformità alla Convenzione, è necessario dimostrare l’intenzione dell’autore del reato di eliminare il gruppo, e tale prova finora non è stata fornita.

Nel 2021 l’Amenia si è rivolta alla Corte Internazionale di Giustizia accusando l’Azerbaigian di violare della Convenzione per l’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione razziale nel territorio del Nagorno-Karabakh. La Corte a febbraio di quest’anno ha emesso una misura provvisoria all’Azerbaigian di garantire “la libera circolazione di persone, veicoli e merci lungo il corridoio di Lachin in entrambe le direzioni”.

Nonostante rimanga incerta la situazione sul territorio, la ripresa del controllo da parte dell’Azerbaigian sul territorio conteso, implica la responsabilità del governo azero di rispettare i diritti della popolazione di etnia armena. Gli scontri del 2020, secondo l’Agenzia dell’UN per i rifugiati (UNHCR), avevano causato lo sfollamento di 90.000 armeni. Ad oggi, è previsto un esodo di massa dalla regione verso l’Armenia, ma non è chiaro quanti dei 120.000 armeni avrebbero scelto di rimanere in Karabakh. 

Questo articolo, a cura di Ilona Zabrytska e Maddalena Fabbi, è stato scritto in collaborazione da Orizzonti Politici e Affari Internazionali, la rivista di IAI, nell’ambito del progetto sulle crisi umanitarie nel mondo

Foto di copertina EPA/NAREK ALEKSANYAN

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