di Maddalena Fabbi
Alle semifinali della Coppa delle Nazioni in Africa a inizio febbraio, i giocatori congolesi hanno usato l’inno nazionale per protestare, coprendosi la bocca con una mano e usando l’altra per imitare una pistola puntata alla testa. L’obiettivo del gesto politico e di protesta era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione di milioni di congolesi colpiti dalle violenze in corso nella parte orientale del Paese.
A febbraio di quest’anno l’escalation di tensioni nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) sta nuovamente mettendo in crisi la sicurezza nella regione orientale del Paese africano, in particolare nelle due province Nord Kivu e Sud Kivu. Le violenze di queste ultime settimane sono gli eventi più recenti di un conflitto che va avanti da decenni, combattuto principalmente dalle forze armate congolesi (FARDC) e dal gruppo di ribelli M23 (“March 23 Movement”), e di una delle crisi umanitarie più lunghe e complicate del mondo. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per l'”escalation di violenza” dopo che l’M23 ha bombardato l’aeroporto di Goma, capoluogo della provincia Nord Kivu, danneggiando gli aerei militari congolesi.
Il Movimento del 23 Marzo (M23)
I ribelli del movimento M23 prendono il nome dall’accordo di pace del 23 marzo 2009, firmato tra il governo dell’ex presidente Joseph Kabila — figlio del predecessore Laurent-Désiré Kabila — ed il gruppo armato Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP). I membri del movimento sono congolesi ma appartenenti alla minoranza etnica tutsi e molto legati ai tutsi ruandesi. Infatti, il gruppo opera nella provincia del Nord Kivu al confine con il Ruanda. Gli atti di ribellione sono iniziati nell’aprile 2012, quando i membri si sono ammutinati contro il governo della RDC e il contingente di pace della Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO). Le ragioni sottostanti sono di carattere etnico, economico e politico. L’M23, infatti, giustifica la propria esistenza denunciando la scarsa attuazione dell’accordo del 23 marzo 2009 che prevedeva che il CNDP diventasse un partito politico e che i propri combattenti si integrassero nell’esercito congolese (le FARDC), e sostenendo di difendere gli interessi delle minoranze congolesi di lingua tutsi e kinyarwanda. Dopo il 2013, il gruppo di ribelli è rimasto dormiente per quasi dieci anni finché, dal novembre 2021, si è nuovamente scontrato con l’esercito nazionale nel territorio di Rutshuru nel Nord Kivu, accusando il governo di non rispettare gli accordi di Nairobi del 2013. L‘M23 ha lanciato nuovi attacchi alla fine dello scorso anno e li ha intensificati nelle ultime settimane, minacciando di conquistare la città chiave di Sake, a circa 27 chilometri a ovest di Goma.
Il conflitto latente tra Congo e Rwanda
Kinshasa accusa da tempo Kigali di sostenere i ribelli dell’M23 e così anche le Nazioni Unite. Le accuse si fondano non solo sui recenti avvenimenti ma anche sulla lunga storia conflittuale tra i due Paesi, che ha visto il coinvolgimento degli Stati vicini e di numerosi gruppi di ribelli armati di diverse nazionalità ed etnie. Entrambi i Paesi, dopo l’indipendenza dal Belgio, hanno visto guerre civili, scontri tra tribù, dittature e, nel caso del Ruanda, il genocidio del 1994. Quest’ultima tragedia ha avuto una diretta ripercussione sul vicino Congo-Kinshasa, dove sono scappati circa 2 milioni di Hutu colpevoli (o considerati colpevoli) del genocidio e perseguitati dal governo Tutsi dell’attuale presidente ruandese Paul Kagame. Se negli anni Sessanta il Congo aveva accolto i rifugiati tutsi perseguitati dagli Hutu (favoriti dai belgi) garantendogli la cittadinanza, negli anni Duemilanon è successo lo stesso con gli Hutu ma anzi, questi sono stati accolti come rifugiati nei campi profughi al confine tra i due Paesi.
Nel frattempo tra il 1996 e il 1998 la RDC ha visto due guerre civili in cui sono stati coinvolti diversi Paesi africani, tra tutti il Rwanda. Se durante la prima, risultata nel 1997 con l’assassinio del dittatore Mobuto Sese Seko e l’autoproclamazione del presidente Laurent-Désiré Kabila, Kagame ha appoggiato quest’ultimo e le forze rivoluzionarie, durante la seconda, nel 1998, Kabila e Kagame si sono trovati ad appoggiare forze opposte. Infatti, mentre il presidente ruandese sosteneva le forze ribelli che volevano deporre Kabila (The Rally Congolese Democratic, RCD), Kinshasa per proteggersi armava i rifugiati Hutu nei campi profughi. Nel 1999 e 2002 vengono firmati degli accordi di pace con l’intervento delle Nazioni Unite, che decidono di aprire una missione nella RDC, la MONUSCO, ancora oggi in fase di ritiro delle proprie truppe.
Il presidente Kagame, di origine Tutsi, e le vicende passate rendono facile propendere per la credibilità delle accuse dei congolesi e della comunità internazionale. Ma il passato e l’etnia non sono le uniche ragioni. Infatti, la regione Kivu al confine tra i due Paesi è ricca di diamanti e coltan.
Interessi economici e la crisi umanitaria
La regione del Kivu a nord-est del Congo e confinante con il Ruanda non solo è ricca di risorse minerarie ma da decenni influenza le relazioni commerciali tra questi Paesi e altri, come l’Uganda, giocatore attivo nelle vicende conflittuali tra i due vicini. Per Kigali la RDC orientale è una destinazione chiave per le esportazioni informali e non di materie prime del Ruanda, mentre la RDC esporta verso il Ruanda minerali di contrabbando, che vengono poi riesportati ufficialmente. Questi minerali, in particolare l’oro, rimangono un’importante fonte di valuta estera per un Paese con un notevole deficit commerciale come il Ruanda.
È risaputo e comprovato che le ricchezze naturali del Congo sono una delle cause principali dei conflitti, della povertà, della corruzione interna e della lunga e complicata crisi umanitaria nel Paese. “I combattimenti hanno ulteriormente aggravato una situazione umanitaria già disastrosa”, ha detto Bintou Keita, Rappresentante speciale del Segretario Generale nella RDC e Capo della MONUSCO al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Secondo l’OCHA, nel 2024, più di 25,4 milioni di persone – un quarto della popolazione – avranno bisogno di assistenza. Fino al 31 dicembre 2023, più di 9,6 milioni di persone erano in movimento nella RDC, tra cui 6,5 milioni di sfollati interni, 2,6 milioni di rimpatriati e 527.000 rifugiati, rendendo la crisi degli sfollati nel Paese una delle più grandi al mondo e seconda solo al Sudan. Le epidemie sono notevolmente diffuse, in particolare il colera e il morbillo, e gli shock climatici stanno peggiorando le condizioni di vita delle popolazioni vulnerabili, con forti piogge e inondazioni fluviali che hanno colpito circa 2,1 milioni di congolesi e causato 300 morti, solo tra la metà di novembre 2023 e gennaio 2024.
La crisi umanitaria e il conflitto in corso nella Repubblica democratica del Congo sono lontani dall’essere risolti. Nonostante i decenni di presenza e l’intervento anche militare delle Nazioni Unite, la missione MONUSCO è considerata da molti fallimentare. Il Congo-Kinshasa rimane uno Stato fondamentale per la stabilità della regione centrafricana, per il commercio dei minerali e i flussi migratori nel continente, e queste tensioni potrebbero causare squilibri anche negli altri Paesi.