L’Italia e il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari

“La nuclearizzazione della Nato ha reso inevitabile che solo quei paesi che hanno accesso alle armi nucleari possano prendere le decisioni cruciali per il futuro dell’Alleanza”. Massimo Magistrati riassumeva così, nel 1953, uno degli assunti alla base di quella che sarebbe stata di lì in avanti la politica nucleare italiana. La simbologia associata al possesso – seppur indiretto – dell’arma nucleare sul proprio suolo come strumento di accrescimento del proprio status nazionale all’interno dell’Alleanza, e dunque, garante di maggiore legittimità ed influenza internazionale.

Per gran parte della Guerra Fredda, la politica nucleare italiana si è modellata in risposta ad una matrice di variabili militari, politico-simboliche, e domestiche inestricabilmente intrecciate al contesto storico. Oggi, a trent’anni dalla fine di tale periodo, come è cambiato – se è cambiato – l’approccio italiano alla non-proliferazione e al disarmo? E, nello specifico, come l’Italia si interfaccia al rinnovato slancio globale verso il disarmo, simboleggiato dal Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN)?

Tra atlantismo e pragmatismo

Dalla metà degli anni Cinquanta ad oggi, l’Italia ha rivestito un ruolo unico all’interno del sistema nuclear sharing, ospitando la maggioranza delle bombe nucleari tattiche B-61 dispiegate in Europa (tra le 40 e le 70 su un totale di 150-200) in due diverse basi, Aviano e Ghedi (mentre gli altri quattro paesi ospitanti hanno una sola base). In parallelo, l’Italia ha tradizionalmente attribuito alla sicurezza euro-atlantica importanza vitale, e alla Nato valore irrinunciabile. Di conseguenza, il dibattito politico sul disarmo e sulla presenza di armi nucleari sul proprio territorio ha tendenzialmente ricalcato le varie posizioni statunitensi. L’impegno e supporto italiano nei confronti del programma di disarmo globale proposto dall’amministrazione Obama nel 2009 ne è un chiaro esempio.

Negli ultimi dieci anni, i governi italiani hanno progressivamente assimilato la graduale delegittimazione delle armi nucleari, rivalutando le variabili militari, politico-simboliche e domestiche che hanno retto la politica nucleare italiana durante la Guerra Fredda. Tuttavia, coniugare l’impegno atlantista e il supporto per il disarmo globale rappresenta un complesso dilemma per l’Italia. In questa prospettiva, la riduzione delle testate tattiche su territorio italiano è definita prerequisito verso il più ampio obiettivo di disarmo globale. Misurandosi con tale sfida, l’Italia favorisce un approccio incrementale e cooperativo alla riduzione delle armi nucleari, mostrandosi in principio a favore della completa eliminazione delle armi nucleari ma seguendo una politica concordata e di cooperazione piuttosto che unitaria e controcorrente.

In breve, sì alla causa del disarmo globale affinché discussa nelle opportune sedi atlantiche, rispettando le percezioni di sicurezza dei vari stati, e dunque la coesione e indivisibilità dell’Alleanza.

Il TPAN

Tra il 21 ed il 23 giugno scorso, a Vienna ha avuto luogo il primo incontro delle parti del Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari. Quest’ultimo, entrato in vigore nel gennaio dell’anno scorso, è il primo trattato internazionale legalmente vincolante il cui obiettivo è l’eliminazione totale delle armi nucleari. Sostanzialmente, il TPAN fa perno sull’impatto umanitario e ambientale delle armi nucleari, stigmatizzando quindi il loro uso, minaccia di uso, ed esistenza stessa.

All’unisono con tutti i membri Nato (ad eccezione dei Paesi Bassi), l’Italia ha rifiutato di partecipare alla conferenza di negoziazione del TPAN e si è, sin da allora, allineata alla ferma opposizione dell’Alleanza nei confronti del Trattato. Difatti, il ruolo italiano all’interno dell’accordo di nuclear sharing rende ogni prospettiva di accessione al Trattato remota, data l’ovvia incompatibilità tra lo stazionamento di armi nucleari su territorio italiano e le clausole primarie del Trattato.

Una timida apertura dei Paesi Nato al TPAN?

Al fine di coinvolgere i paesi possedenti armi nucleari, ed i membri dell’Alleanza nelle attività del TPAN, è stata aperta la possibilità di osservare gli incontri anche ai non-membri. Nei mesi precedenti, Norvegia, Germania, e Svezia avevano già esternato interesse a partecipare, aderendo dunque a questa formula. Alla viglia della conferenza, Belgio e Paesi Bassi hanno inaspettatamente comunicato la loro partecipazione come osservatori, lasciando l’Italia e la Turchia come gli unici membri Nato ospitanti armi nucleari a non osservare la conferenza.

Sebbene sia passata in sordina, la decisione di questi paesi di prendere parte alla conferenza ha una relativa rilevanza. In primis, ha segnalato un interesse ad interagire costruttivamente con l’essenza del Trattato, ritenuto in linea con le agende e gli obiettivi nazionali sul disarmo. Secondariamente, la partecipazione di membri Nato, e soprattutto dei membri del nuclear sharing, ha ridotto la polarizzazione tra i due campi, molto spesso – ed infruttuosamente – esacerbata dall’opera di stigmatizzazione dei paesi nucleari. Infine, la strategia di posizionamento dell’Alleanza, definita da boicottaggio e rifiuto, e le pressioni esercitate sui membri affinché aderissero a tale strategia, rendono le decisioni di questi Paesi cariche di ulteriore significato.

La posizione italiana

Alla luce di quanto detto, la decisione italiana di non partecipare risalta particolarmente. Il 18 maggio 2022, la Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati approvava una risoluzione multipartitica esortando il governo a considerare, in consultazione con gli Alleati, la possibilità di partecipare come paese osservatore alla conferenza, specialmente alla luce delle decisioni di Germania e Norvegia. Sebbene la mozione abbia fatto pensare ad un reale possibilità di partecipazione, il mancato seguito da parte del governo ha innalzato una serie di punti interrogativi. Scarso interesse? Vecchio retaggio atlantista? Dinamiche domestiche ostruttive?

Dopo tutto, a posteriori, il costo-opportunità di aver osservato la conferenza non si è rivelato così alto. La decisione non ha intaccato il ruolo e l’impegno di tali paesi nei confronti dell’Alleanza e la possibilità di fare una dichiarazione ha permesso di esternare le perplessità, i criticismi, e i dubbi che questi paesi (in particolar modo) nutrono.

D’altra parte, mentre la guerra in Ucraina ha ricompattato l’Alleanza atlantica, attutito i tentativi di alcuni paesi di avanzare politiche di disarmo più autonome e dinamiche, e modificato le percezioni di sicurezza dando impulso a maggiori spese militari, l’uso da parte di Putin del ricatto nucleare per schermire l’invasione dell’Ucraina non fa altro che esacerbare un cardine del TPAN: il disarmo totale è l’unico modo possibile per eliminare il pericolo rappresentato da tali armi. Come raggiungerlo, come neutralizzare la recente rilegittimazione delle armi nucleari e come assicurarsi che la ridefinizione di sicurezza nel dopoguerra in Europa non si basi più su questi strumenti rimane la sfida centrale.

Foto di copertina EPA/RUSSIAN DEFENCE MINISTRY PRESS SERVICE HANDOUT

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