L’Europa che Mosca non si aspettava

Ad oltre tre mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, l’unica cosa che sembra profilarsi con una certa chiarezza in un contesto che resta estremamente volatile (sia dal punto di vista dell’esito bellico che delle prospettive di pace) sembra essere che il conflitto sta generando molti “vinti” anche al di là delle parti direttamente implicate.

Il ruolo in declino delle organizzazioni internazionali

Questo vale anche per le svariate organizzazioni internazionali che giocano un ruolo più o meno importante in questa guerra. Ad esempio, l’invasione russa sta paralizzando uno dei pochi spazi multilaterali rimasti per la cooperazione tra Russia e occidente, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce).

Le azioni della Russia hanno avvelenato l’atmosfera nella sede dell’organizzazione a Vienna e compromesso ulteriormente la sua capacità decisionale (pregiudicando in modo probabilmente irreversibile anche  l’iniziativa di un “high-level dialogue on European security”, lanciata solo pochi mesi fa). Una sorte simile è toccata alle Nazioni Unite (Onu), il cui Consiglio di sicurezza è stato definito “paralizzato” e “disfunzionale” dallo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky che ne ha anche chiesto pubblicamente una riforma.

La Nato sembra essere nel gruppo dei “vincitori”: nonostante le accuse del Cremlino (popolari in molti Paesi, soprattutto nel Sud del mondo) di aver provocato la guerra con la propria politica di allargamento, l’Alleanza ha riconfermato la propria centralità per la sicurezza europea, attirando nuovi aspiranti membri e ottenendo un impegno nella spesa militare più deciso da parte dei membri esistenti.

Tuttavia, alcune crepe nell’unità interna si sono rese già visibili di fronte al possibile ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza – prospettiva fortemente osteggiata dalla Turchia (e, inizialmente, anche dall’Ungheria). Ulteriori divergenze potrebbero sorgere in merito all’eventuale ingresso dell’Ucraina o alla necessità di sviluppare una strategia nei confronti della Cina – prospettiva sulla quale si discute ormai da oltre tre anni, ma che non sembra essere scevra di complicazioni.

L’accordo sul petrolio russo

In un certo senso, l’Ue sembra per ora condividere la stessa sorte: anche se sono molti e molto complessi i punti interrogativi che gravano sul futuro dell’Unione, le speranze che questa guerra renda l’Ue più coesa, più autonoma, più “verde” sono più forti dopo il Consiglio europeo del 30 e 31 maggio.

La reazione compatta e risoluta dell’Ue fin dall’inizio dell’invasione ha sorpreso molti osservatori. Al momento, tale unità sta dimostrando di tenere nonostante le difficoltà. Il compromesso trovato la sera del primo giorno del Consiglio sull’embargo di petrolio russo ne è la prova, visto il pessimismo dominante nei giorni precedenti all’incontro.

L’accordo firmato ha aperto la strada all’adozione da parte dell’Ue di un sesto pacchetto di sanzioni che include uno stop alla maggior parte delle importazioni di petrolio russe (circa il 90% alla fine del 2022, secondo la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen).

L’embargo, concordato dopo settimane di difficili negoziati soprattutto a causa dell’opposizione di alcuni membri dell’Europa orientale, prevede un’esenzione temporanea per il petrolio importato tramite oleodotto per concedere a Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca – Stati senza accesso al mare – più tempo per prepararsi all’interruzione delle forniture di greggio dalla Russia.

La svolta europea su difesa e ambiente

La guerra ha anche rilanciato il tema della difesa comune europea, ponendo come obiettivi immediati la razionalizzazione e uniformità delle spese militari dei vari membri europei e una maggiore armonia tra le agenzie di difesa nazionali ed europee. Anche Paesi di solito restii a cedere importanti porzioni della propria sovranità a Bruxelles, come la Danimarca, sembrano essere determinati a integrarsi maggiormente con gli altri membri dell’Ue anche sul piano della sicurezza e della difesa.

Una delle battaglie decisive per la sicurezza europea, però, riguarda l’ambiente: la realizzazione degli obiettivi verdi contenuti nel Green Deal, sebbene già necessaria per fronteggiare la crisi climatica, diventata ora un “imperativo strategico”, in risposta all’aggressione di Mosca e al suo uso delle forniture energetiche come arma di ritorsione. In questa battaglia, una delle armi principali su cui l’Ue scommetterà sono le rinnovabili, il cui valore degli investimenti in Europa ha raggiunto il massimo nel 2011 con 131,7 miliardi di dollari, ma che da allora ha oscillato pesantemente.

Allo stesso tempo, le difficoltà legate alla transizione energetica che molti Stati europei avevano anche prima della guerra sono ancora più forti oggi. Il rischio è quello che soluzioni “d’urgenza” che dovrebbero essere solo di breve periodo, come l’incremento dell’uso di fonti molto inquinanti come il carbone o addirittura il ritorno alla loro produzione in loco, diventino in realtà un fenomeno permanente, mettendo a rischio le ambizioni europee contenute nel piano REPowerEU.

Divide et impera

Prima dell’invasione, il Cremlino e gli Stati europei più potenti hanno spesso preferito dialogare su base bilaterale, invece che collettivamente. L’effetto è che Mosca, ove possibile, ha sempre adottato una tattica di divide et impera volta a indebolire Bruxelles sfruttando interessi individuali e le rivalità tra i singoli membri.

Anche adesso Mosca sta ricorrendo a una politica attendista, convinta che le divergenze politiche (ad esempio, su allargamento o difesa comune) e, soprattutto, i costi economici delle sanzioni sgretoleranno l’unità europea. Eppure, l’Ue può uscire da questa guerra più forte, più “verde” e più coesa, come dimostra l’accordo raggiunto sul sesto pacchetto di sanzioni. L’alternativa a questo scenario è che l’unità europea si trasformi in una delle altre vittime di questa sanguinosa guerra, relegando anche l’Unione alla categoria dei “vinti”.

Foto di copertina EPA/OLIVIER HOSLET

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