L’escalation delle tensioni tra India e Pakistan

Da quando, il 22 aprile scorso, un commando terroristico ha ucciso 26 civili a Pahalgam, nel Kahsmir indiano, la tensione tra India e Pakistan ha superato i livelli di guardia. L’India ha accusato il Pakistan di essere indirettamente responsabile. L’attacco sarebbe stato infatti portato avanti da uno dei gruppi terroristici che, secondo l’intelligence indiana, riceve supporto logistico e protezione politica da parte dei servizi di sicurezza pachistani. Islamabad, dal canto suo, nega qualsiasi coinvolgimento.

La reazione indiana è stata immediata e decisa: il governo ha sospeso il trattato del 1960 che regolamenta la gestione delle acque del bacino dell’Indo; ridotto al minimo la presenza diplomatica pachistana; interrotto il commercio, anche attraverso paesi terzi; annullato tutti i visti concessi a cittadini pachistani e intimato loro di lasciare il paese; vietato alle navi pachistane di attraccare ai porti indiani; bandito i canali YouTube pachistani; e chiuso i valichi di confine. Il Pakistan ha reagito con misure simili e ha dichiarato che l’accordo di cessate il fuoco in vigore dal 1972 è da considerarsi sospeso. Come di solito avviene in queste situazioni, gli scontri al confine lungo la Linea di Controllo (il confine di fatto tra i due paesi) si sono intensificati. Il premier indiano Narendra Modi ha dato il “via libera” all’esercito di reagire come meglio crede per difendere la sicurezza nazionale.

Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, l’India ha sferrato un attacco missilistico contro nove sospette basi terroristiche, causando danni relativamente limitati (anche se Islamabad ha dichiarato che gli attacchi avrebbero causato 26 morti civili). Il Pakistan ha reagito colpendo il Kashmir indiano con colpi d’artiglieria che avrebbero causato almeno nove morti civili. Inoltre, secondo le autorità pachistane alcuni jet dell’aviazione indiana sarebbero stati abbattuti (il governo indiano non ha confermato). Il rischio di un’escalation è alto, anche se alcuni elementi portano a pensare che i due paesi non hanno intenzione di sprofondare in un conflitto su larga scala.

India, Pakistan e la crisi del 2019

L’ultima volta che India e Pakistan si sono trovate sull’orlo della guerra (dopo l’attentato di Pulwama, a pochi mesi dalle elezioni generali indiane del 2019), la situazione non è degenerata per le forti pressioni esercitate dal governo americano su entrambi i paesi, ma anche per una serie di circostanze fortunate: da un lato infatti i raid aerei indiani non causarono danni o vittime – forse intenzionalmente? – e, dall’altro, il pilota indiano catturato dall’esercito pachistano sopravvisse e fu prontamente rimandato in patria. Entrambi i governi, grazie anche al controllo che esercitavano sui media, furono in grado di presentare la propria reazione come una vittoria.

La situazione di oggi presenta qualche somiglianza ma anche notevoli differenze. Come nel 2019, entrambi i governi esercitano un notevole controllo sui media, che gli permetterebbe di presentare scenari molto diversi fra loro come una vittoria. Come nel 2019, Modi è sotto pressione da parte dell’elettorato per mostrare i muscoli, anche in vista delle importanti elezioni statali del Bihar (il terzo stato più popoloso del paese) previste per l’autunno. D’altro canto il capo dell’esercito pachistano Asim Munir, a differenza del suo predecessore che aveva perseguito una linea conciliatrice, sta cercando di rafforzare la sua posizione con una retorica molto aggressiva nei confronti dell’India già da prima dell’eccidio del 22 aprile. Inoltre, gli Stati Uniti non sembrano volersi occupare della questione, non solo per l’apparente disinteresse del presidente Donald Trump, ma anche perché, a differenza del 2019, non hanno più truppe in Afghanistan. Naturalmente, è assai probabile il Dipartimento di Stato americano sia al lavoro per assicurarsi che la tensione tra i due paesi, entrambi dotati di armi nucleari, non salga oltre una certa soglia.

Prospettive di risoluzione e rischi geopolitici

Nonostante l’estrema pericolosità della situazione, al momento un’uscita dalla crisi simile a quella del 2019, quando agli attacchi mirati indiani segui una risposta altrettanto mirata da parte pachistana, sembra la più plausibile. Gli attacchi del 6-7 maggio potrebbero aver soddisfatto le aspettative dell’opinione pubblica indiana e soprattutto dei nazionalisti indù, e la base elettorale del partito del primo ministro, che chiedevano una reazione militare forte. Il Pakistan ha a sua volta dichiarato di aver obbligato il nemico ad alzare “bandiera bianca”, il che potrebbe placare la propria opinione pubblica.

Quel che è certo è che una guerra prolungata avrebbe costi altissimi per entrambi i paesi. Il Pakistan è da anni ingolfato in una grave crisi economica e politica che una guerra non farebbe che aggravare. L’India d’altro canto non può ignorare la possibilità che la Cina, storica alleata di Islamabad, decida di intervenire. Piccoli spostamenti di truppe cinesi nel settore orientale del confine conteso tra i due paesi richiederebbero un immediato dispiegamento di forze indiane su due fronti e cioè il venire in essere del più temuto incubo strategico dell’establishment militare indiano. Molto dipenderà da come i due paesi decideranno di leggere la reazione dell’altro e dalla chiarezza con la quale Cina e Stati Uniti comunicheranno a India e Pakistan la propria soglia di tolleranza.

Ricercatore associato presso l’Istituto Affari Internazionali, dove si occupa di politica indiana. È docente di Storia Contemporanea dell’India all’Università di Napoli L’Orientale e Visiting Research Fellow alla National University of Singapore.

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